DISCORSO DIVINO

L'abitante interiore è Dio stesso

7 ottobre 2005

“Durante la fanciullezza l’uomo sviluppa un forte interesse nel giocare

assieme ad altri bambini; durante la giovinezza, sotto l’influenza di Cupido,

egli va in giro, infatuato, in compagnia delle donne;

durante la mezza età è invischiato nelle faccende del mondo

e profondamente impegnato nel procurarsi ricchezza;

infine, in vecchiaia, desidera questo e quello senza contemplare Dio

neanche a quell’età matura. Incapace di liberarsi delle vecchie abitudini,

incapace di sviluppare interesse per il cammino che porta a Dio,

l’uomo spreca la sua preziosa nascita umana completamente

avviluppato nella rete del karma.”



Incarnazioni dell’Amore!

L’uomo passa la sua vita così, completamente irretito nella ricerca di cose effimere, trascinato da pensieri improduttivi a seconda della particolare fase di crescita che sta attraversando. Alla fine, comprende di avere in effetti sprecato la sua preziosa nascita umana in ricerche inutili. È questa la vera natura di un essere umano? È questo ciò che egli deve imparare nella vita? Queste attività sono fugaci come bolle nell’acqua; esse non possono procurare felicità duratura e sprecare il proprio tempo in tali futili ricerche è pura follia.



Una Forma per il Senzaforma
Quando Dio nasce in forma umana, la gente dubita se Egli sia nato dal ventre di Sua madre, come ogni altro essere umano, o per Sua divina volontà. Il fatto è che, quando Dio nasce in forma umana, sceglie i Suoi genitori; Egli compie la Sua missione avatarica con l’aiuto della forma che ha assunto e questo accade in ogni era. Lo stesso è accaduto nel Dvâpara Yuga con il Signore Krishna. Egli strinse amicizia con i Pândava e per loro fu veramente un amico, un filosofo, una guida e li protesse costantemente dalle macchinazioni dei malvagi Kaurava; quando erano impegnati nella guerra del Kurukshetra contro i Kaurava, Egli assunse il ruolo di auriga (Ratha Sârathi) di Arjuna e li guidò alla vittoria. A guerra finita, il Signore Krishna comunicò ai Pândava l’intenzione di partire per il Suo palazzo a Dvârakâ e volle che uno dei cinque fratelli Lo accompagnasse durante il viaggio. Kuntî, madre dei Pândava, suggerì che Krishna prendesse Arjuna con Sé dato che erano molto vicini l’uno all’altro; di conseguenza il Signore Krishna condusse Arjuna a Dvârakâ e soddisfece tutte le sue necessità durante il soggiorno. Arjuna era un po’ imbarazzato di approfittare dei servigi resigli dal Signore e Gli disse: “O Signore! Come posso accettare dei servizi da Te?” Krishna rispose: “Arjuna! Stai sbagliando. Chi sto servendo? Il tuo corpo? Anche il tuo corpo Mi appartiene; non è tuo. Io sono il protettore di tutti gli esseri del mondo e quindi tu non devi illuderti pensando di essere il corpo. Il corpo è fatto dei cinque elementi ed è destinato a perire, prima o poi, ma l’Abitante interiore non ha nascita né morte, non ha attaccamenti di alcun tipo: è il Testimone eterno. In Verità, Dehî (l’Abitante interiore) è Devadeva Stesso (il Dio degli dei).Io sono quel Devadeva. Tu ti identifichi con il corpo a causa dell’illusione e dici “io” ma quello non è il tuo vero Sé; tu non sei il corpo e, finché ti identificherai con esso, rimarrai l’essere individuale (jîva) ma, una volta uscito da questa illusione, diverrai uno con Deva (il Supremo Sé). Abbandona quindi l’attaccamento al corpo. Il corpo umano è come una bambola ma ognuno deve compiere tutte le sue azioni (karma) usandolo come strumento. L’uomo ha solamente il diritto di compiere l’azione; il mondo intero si muove grazie ad essa e Io sono il Direttore di questo gioco cosmico, o Arjuna!”



La dura prova di Arjuna
Gli Yâdava, con cui Krishna passò tutta la vita, perirono a causa del loro ego e del loro odio; alla fine, Krishna Stesso abbandonò la forma umana e partì per la Sua divina residenza. Assistendo impotente a questi sviluppi, Arjuna pianse inconsolabile; incapace di sopportare la separazione dal suo amato Signore, amico, filosofo e guida, egli gemette: “O Krishna! Tu mi hai sempre protetto e difeso; in chi cercherò rifugio ora che sei tornato alla Tua residenza celeste?” Alla fine, comprendendo quanto fosse futile sprecare tempo nel rammarico, tornò ad Hastinâpura. La città di Dvârakâ presentava una scena di distruzione totale; tutto il clan degli Yâdava era scomparso e, in quella situazione, Arjuna non sapeva che cosa fare. Gli venne in mente che, probabilmente, sua madre Kuntî si sarebbe informata circa la salute del Signore Krishna e degli Yâdava. Cento e una domanda si affollarono allora nella sua mente ma non ottennero risposta. Infine radunò le gopika e si allontanò da Dvârakâ in ossequio al comando divino. All’improvviso essi furono circondati da un’orda di selvaggi che abitavano della foresta ma, con suo grande sgomento, Arjuna non fu neppure in grado di sollevare il proprio arco, il Gândîva; davvero strano! Il grande guerriero Arjuna che, con estrema facilità, sbaragliava le armate nemiche nella guerra del Kurukshetra, non era ora neppure capace di sollevare il suo Gândîva. Egli si dolse della sua incapacità e pregò Krishna: “O Signore Krishna! Che cosa è accaduto a tutta la mia forza? Dove è andata a finire?” E, di nuovo, rispose a se stesso: “Colui che mi ha dato questo potere, ora se lo è ripreso.” Alla fine, in totale impotenza e disperazione, egli pregò il Signore Krishna: “O Signore! Bisogna che Tu Stesso protegga le tue gopika: io ne sono incapace.” Infine, assieme ad alcune di loro, sfuggite alle grinfie dei barbari per divina grazia di Krishna, egli giunse a Hastinâpura; là trovò il popolo disperato senza riuscire a comprenderne la ragione. Nel contempo, Dharmarâja era molto ansioso di ricevere da lui notizie sul Signore Krishna e Arjuna rispose che gli avrebbe raccontato dettagliatamente tutto ciò che era accaduto. Anche madre Kuntî si struggeva dal desiderio di avere notizie del Signore Krishna e chiese: “Figlio! Arjuna! Sta bene il mio caro Krishna? Raccontaci esattamente, ti prego, ciò che è accaduto durante il tuo soggiorno a Dvârakâ.” Ella era smaniosa di conoscere i fatti e Arjuna non poté fare altro che dire la verità per cui si calmò e raccontò ogni cosa circa la partenza di Krishna per la Sua residenza celeste e gli sviluppi susseguenti. Nel momento in cui Arjuna raccontò che Krishna aveva lasciato il Suo involucro mortale, madre Kuntî non resse al dolore e crollò sul divano su cui era seduta. Dharmarâja corse al suo fianco e cercò di consolarla dicendo: “Madre! Ciò che era destinato ad accadere è accaduto; questi sono tutti giochi divini del Signore Krishna e non ha senso addolorarsi per tali avvenimenti. Alzati, ti prego.” Kuntî, però, non rispose ed egli capì che aveva lasciato le sue spoglie mortali. Presa in grembo la testa di lei, chiamò tutti i suoi fratelli e dette istruzioni per il funerale. Egli dispose anche che si organizzasse l’incoronazione del giovane Parîkshit, erede legittimo, come re di Hastinâpura. In seguito chiamò Nakula e Sahadeva al suo fianco e disse loro di organizzare il mahâprasthana1, la grande marcia dei Pândava verso l’Himâlaya. Draupadî, la regina dei Pândava, che stava assistendo a questi sviluppi, non poté più mantenere il suo equilibrio; la doppia perdita per la dipartita del Signore Krishna da una parte e l’improvvisa morte di madre Kuntî dall’altra le furono insopportabili. Dharmarâja chiamò Arjuna e gli dette istruzioni per organizzare la cremazione del corpo di Kuntî; Arjuna eseguì. I fratelli non riuscirono a contenere il loro dolore e piansero inconsolabilmente per due ragioni: una per aver perso il loro caro Signore Krishna e l’altra per la morte della amata madre. Dharmarâja condusse la processione funebre portando il fuoco in un vaso di terracotta; questa tradizione era in voga anche allora. Durante il funerale il popolo di Hastinâpura non poté trattenere le proprie emozioni. Infine, quando il corpo di madre Kuntî fu posto sulla pira nel luogo della cremazione, Dharmarâja accese il fuoco e, in pochi attimi, quel corpo mortale fu consegnato alle fiamme, dopodiché i fratelli Pândava tornarono a casa.



L’incoronazione di Parîkshit

Il successivo adempimento che avevano in programma era l’incoronazione del giovane Parîkshit. Che cosa meravigliosa! Avevano perduto l’amata madre, avevano perduto il Signore Krishna, loro vero e proprio alito vitale, eppure erano pronti ad eseguire l’incoronazione con perfetta calma e padronanza! Il tempo passa e tutte le cose in sospeso devono avere il loro corso; il regno di Hastinâpura doveva essere protetto. Con questo pensiero i sacerdoti cominciarono a cantare i mantra vedici per officiare i riti connessi con l’incoronazione di Parîkshit. Egli fu portato nella sala del trono e gli fu imposta la corona reale mentre i mantra vedici venivano cantati ma egli era molto triste e implorò i Pândava: “Oh, miei cari nonni! Voi siete tutti grandi re e siete ancora forti e sani; è giusto che io indossi la corona reale alla vostra onorevole presenza? Merito io questa corona? Come sono indegno e insignificante! Qualcuno di voi, vi prego, indossi questa corona e governi il paese.” I fratelli Pândava cercarono di convincerlo dicendo: “Caro ragazzo! Noi non saremo più qui per governare questo regno; qualcuno, come re di questo grande paese, deve occuparsi del benessere del popolo. Pertanto, tu devi assumerti questa responsabilità. Le faccende del regno devono essere sbrigate; non puoi esimerti dal tuo dovere di assicurare la continuità degli obblighi regali.” Dopo aver così dato spiegazioni e convinto il giovane Parîkshit, essi sedettero. Successivamente, la sua incoronazione come re di Hastinâpura ebbe luogo secondo il volere di Dharmarâja. Anche il giovane principe si inchinò al suo volere, permettendo che il rituale dell’incoronazione fosse completato.



Verso l’ultima dimora
Allora i Pândava cominciarono la loro grande marcia verso l’Himâlaya direttamente dalla corte reale in cui si era tenuta l’incoronazione. Essi gettarono le ceneri della loro madre nel sacro fiume Gange e proseguirono poi la marcia, uno dietro l’altro, verso l’Himâlaya. Dharmarâja, il più anziano di loro, apriva il cammino e Bhîma, Arjuna, Nakula e Sahadeva lo seguivano nell’ordine. Draupadî, essendo moglie dei cinque fratelli Pândava, camminava dietro di loro. Mentre procedevano nella loro grande marcia verso l’Himâlaya, Draupadî cadde per prima e i quattro fratelli, Sahadeva, Nakula, Arjuna e Bhîma, caddero nell’ordine durante il viaggio ma nessuno di loro si voltò indietro: per ognuno fu un solitario viaggio verso l’ultima dimora. Infine Dharmarâja rimase solo e continuò la sua marcia. In questo modo il soggiorno terreno dei Pândava giunse alla fine. Parîkshit fu molto addolorato quando seppe della loro dipartita da questo mondo; quando partirono per il mahâprasthana la gente fu incapace di sopportare la separazione da loro e molti abbandonarono le loro spoglie mortali. Sembrò che il destino fosse ingrato verso i Pândava; chi può comprenderne le vie? Nessuno, eccetto Dio, può conoscere la piega degli eventi della propria vita; uno può anche indossare vesti arancione ma questo non lo renderà capace di sapere che cosa il futuro abbia in serbo per lui. I Pândava sono simbolo di virtù e valore; essi furono capaci di lasciare le loro spoglie mortali serenamente così come avevano condotto la loro vita in modo esemplare e santificato il loro tempo in contemplazione di Dio.



Parîkshit, re pio
Come loro, anche re Parîkshit fu uomo di virtù e valore; nonostante espletasse i suoi doveri, passava il tempo facendo Nâmasmarana (la ripetizione del Nome di Dio). Quando divenne re di Hastinâpura, alcuni re dalla mente malvagia si accordarono e gli mossero guerra ma avevano sottovalutato la sua forza e il suo valore pensandolo giovane e inesperto. Alcuni altri nobili re, al contrario, gli andarono in aiuto e, con loro, Parîkshit poté sconfiggere i nemici e affermare la sua supremazia. Egli poté uscirne vittorioso grazie alla sua incrollabile fede in Dio. Ecco perché Io vi dico spesso: “Dio è il vostro unico rifugio dovunque siate, in cima a una montagna, in cielo, in paese, in città o in alto mare.” All’inizio, quando Parîkshit fu consacrato re, la gente dubitò che quel ragazzo potesse gestire i destini di un regno ma, dietro l’abile consiglio del figlio di Kripâcharya, egli dette prova di essere un re efficiente: seguì le orme dei Pândava e, lasciando per un po’ i suoi doveri di re, andò nel luogo dove i cinque fratelli avevano lasciato le spoglie mortali. Intorno a quel luogo fece pradakshina (circumambulazione) cospargendosi il capo con la polvere dei loro piedi in segno di riverenza. Egli praticò e propagò i loro ideali. I Pândava costituiscono un ideale per il mondo intero; noi dovremmo emularli e santificare la nostra vita. Può darsi che dobbiamo affrontare dolori e sofferenza ma dovremmo rimanere imperturbati di fronte ad avvenimenti emozionali; solo allora il vero potere e la forza si manifesteranno in noi. Se seguiremo gli ideali dei Pândava, sperimenteremo pace, felicità e prosperità.

Studenti!

Voi siete giovani ed avete una lunga vita davanti. Parîkshit era molto più giovane di voi quando salì al trono, eppure accettò la sfida con ammirevole coraggio e fede in Dio. Egli costituisce un ideale per le giovani generazioni; anche voi dovreste sviluppare tali coraggio e forza d’animo ed impegnarvi per il benessere della società. Questo è il vero ideale; Pregate Dio di concedervi la forza necessaria per perseguirlo. I Pândava lasciarono il mondo molto tempo fa ma i loro ideali sono eterni e sempre attuali; voi dovreste coltivare quegli ideali nel vostro cuore e seguirli nella lettera e nello spirito.

Incarnazioni dell’Amore! Studenti!

Tutti voi siete molto virtuosi e dovete costituire un esempio per gli altri; non date mai spazio all’afflizione, non abbiate mai paura. Voi non dovete esser schiavi di nessuno. Abbiate fede assoluta nel fatto che Dio è sempre con voi, vi guida e vi protegge. Con Dio fermamente installato nel vostro cuore e il Nome divino sulle labbra, dovete andare diritti dicendo: “Jai, Jai, Jai …”



Prashânti Nilayam, 7 ottobre 2005
Sai Kulwant Hall
Festività di Dasara



(Tratto dal testo inglese pubblicato sul sito internet dello

Shrî Sathya Sai Central Trust di Prashânti Nilayam)



Mahâprasthana: è il grande viaggio verso la morte, il cammino solitario verso il nord, in silenzio e senza voltarsi indietro finché non si cade morti.