Si possono possedere tutti i Veda
o essere un poliedrico scrittore,
ma senza la purezza della mente
si prenderà una strada cattiva.
O figlio di Bharat, presta attenzione a questo buon consiglio.
Incarnazioni dell’Amore,
Shankara, basandosi su citazioni dai sacri testi, divulgò l’idea che i Veda sostengono il Dualismo (Dvaita) e che il Vedânta insegna il Non-dualismo (Advaita). La differenza tra i Veda e il Vedânta somiglia a quella esistente fra i vari organi di un corpo. Occhi, orecchie, naso, braccia e piedi sono differenti parti di uno stesso corpo. L’individuo è un membro della società, e la società è un membro dell’umanità. L’umanità è parte della Natura (ovvero del mondo fenomenico), e la Natura è un membro del Sé Supremo (Paramâtma).
A Kâshi (Vârânasi), nell’assemblea degli studiosi infuriarono delle dispute su molte questioni filosofiche. Divertito a quello spettacolo, Shankara esclamò: «Dalla controversia nasce e si sviluppa l’ostilità». Le discussioni continue hanno solo come risultato una crescente amarezza fra i litiganti. La disputa non è il giusto metodo per affrontare questioni di natura spirituale.
Il Dualismo dei Veda
L’uomo è costretto a risolvere dei problemi nella vita. Durante la sua esistenza non riuscirà mai a sentirsi libero dall’ansia; dalla nascita alla morte egli deve far fronte continuamente a delle preoccupazioni. L’unico modo per non esserne coinvolto è intensificare il proprio amore verso Dio. (Swami recita qui una poesia telugu). L’amore è la panacea contro ogni male.
Tuttavia, i Veda non hanno attribuito sufficiente importanza all’amore; essi puntano maggiormente sull’ideale (âshayam) che sull’esperienza (anubhavam). Vi sono innumerevoli studiosi vedici che cantano incessantemente i Veda, ma tutto ciò vien fatto solo con le labbra e non ha niente a che vedere con l’azione pratica. Questo atteggiamento fu descritto da Shankara come Dualismo (Dvaita). Tutti i mantra vedici erano stati concepiti nella forma di preghiere per ottenere favori. «Voglio questo, voglio quello». Il desiderio sta alla radice del dualismo; esso insorge a causa della sensazione che esista un “altro”. Il vero non-dualismo consiste nell’estinzione di questo senso di separazione e nel percepire come unica cosa il soggetto e l’oggetto. Il dualismo esiste quando l’oggetto che si desidera, ad esempio un fazzoletto, è distinto dalla persona che lo desidera.
Il Non-dualismo
Il non-dualismo è uno stato di coscienza che può solo esser sperimentato e non descritto a parole. In questo senso, l’advaita è come un muto che ha gustato una cena deliziosa ma non può descrivere i sapori dei piatti che ha consumato. Ci sono due modi per sperimentare l’esistenza di qualcosa: la percezione o prova diretta e la prova indiretta. La beatitudine prodotta da una coscienza non-dualista oltrepassa le parole. Può solo essere sperimentata; non può soggiacere a descrizioni o a spiegazioni. In questo campo, se mancasse la prova indiretta, rimarrebbe fuori discussione la prova della percezione diretta.
Purtroppo, la gente d’oggi attribuisce valore solo alla percezione diretta ed ha scarsa considerazione per l’evidenza indiretta. Non è un atteggiamento giusto. Prendete ad esempio un blocco di ghiaccio: ciò che si vede appare solido, eppure è costituito interamente d’acqua, che è liquida. L’acqua, dunque, la cui presenza si inferisce in modo indiretto, è alla base del solido blocco di ghiaccio che viene visto per percezione diretta. Quindi, se ne deduce che ciò che è indiretto è fondamento di ciò che viene percepito direttamente.
Allo stesso modo, il fondamento invisibile del visibile universo fenomenico è il Divino. Gli uomini che non riconoscono questa verità seguono la concezione vedica del Dualismo anziché riconoscere la verità della dottrina vedantica del Non-dualismo.
Gli uomini passano la vita immersi negli affari del mondo. Shankara dedicò la propria vita per mostrare al genere umano il più vivido sentiero della vita interiore. Il suo precettore, Gaudapâda, gli diede ogni aiuto ed incoraggiamento. Shankara, nonostante fosse giovanissimo, dimostrò di avere una forza d’animo e un potere di persuasione non comuni, tanto che, all’età di sedici anni, riuscì a convincere i venerabili pandit di Kâshi della validità della dottrina advaita.
Che cos’è l’Advaita? L’unità del tutto è Advaita. Le scritture hanno dichiarato che il Cosmo intero è permeato del Divino. È per un desiderio dei devoti che Dio viene adorato sotto differenti nomi e forme, ed è questa la ragione per cui al mondo esistono tante fedi e tante sette.
Forma e sostanza
Un ricco devoto, dalla mentalità completamente dualistica, adorava la forma di Krishna. Voleva offrire un regolare culto alla statua di Krishna. Con venti monete d’oro si fece fare da un orafo una statua d’oro di Krishna. Poi si procurò una statuetta d’oro raffigurante una vacca, da appaiare all’idolo di Krishna. Fece cesellare un pavone e una tazza d’oro per compiere l’abhishekam, la rituale abluzione, entrambi dello stesso peso della statua. Ogni giorno era solito compiere l’abhishekam e si compiaceva nell’adorare Krishna.
Il logorio del tempo, però, portò dietro di sé una scia di declino ed egli si vide andare in rovina le proprie ricchezze al punto da essere ridotto quasi all’indigenza. Mise insieme tutti gli oggetti d’oro che erano stati destinati al culto e li portò a un altro ricco per venderglieli. Ciascuna statuetta fu valutata a peso per sessantamila rupie. Il vecchio devoto non potè sopportare che la sua adorabile statua di Krishna venisse valutata allo stesso prezzo della vacca, del pavone e della tazza, e disse che per l’idolo di Krishna bisognava alzare il prezzo. L’acquirente, le cui intenzioni erano quelle di comprare, disse: «Signore, per voi la forma di Krishna è più preziosa di un’altra; ma per me lo è di più il suo peso materiale, non la figura.»
Ciò che sta accadendo nel mondo d’oggi è che gli uomini attribuiscono valore alle forme esteriori e non alla sostanza divina che le accomuna tutte. I cinque elementi che costituiscono ogni essere sono divini. Oltre i cinque elementi non ne esiste un sesto. La gente crede che esista un sesto elemento e gli va dietro. È il folle desiderio che causa una gran sofferenza all’uomo. È inevitabile che si abbiano desideri, ma occorre porvi un limite.
(Qui Swami narra la storia del re Mida che pregò la fata per avere il dono di trasformare in oro tutto ciò che toccava, giungendo all’estrema conseguenza di non poter più nemmeno mangiare, perché il cibo stesso diventava oro al suo tocco; così che pregò di nuovo la buona fata perché si riprendesse il dono che gli aveva elargito).
È evidente da questa storia quanto siano gravi le conseguenze del desiderio insaziabile. Coloro che agiscono stando ai comandi del Divino saranno felici e nella prosperità.
Shankara, perciò, mise in guardia il genere umano contro la pazza corsa dietro la ricchezza ed esortò tutti a ridurre i propri desideri.
(Swami intona un canto telugu:)
«Si ottiene la ricchezza che spetta per karma. Perciò, sii contento di ciò che hai»
Il controllo dei desideri
Controllate i vostri desideri. Coltivate l’amore verso Dio, e quell’amore vi accorderà tutto, secondo le vostre necessità. Non c’è bisogno che chiediate alcunché a Dio.
Non diede forse a Sabarî
tutto ciò di cui aveva bisogno senza che lei lo chiedesse?
Non benedì forse Jatâyu con la Sua grazia?
Canto telugu
Dasharatha aveva pregato a lungo perché suo figlio compisse i riti finali del suo trapasso, ma non ottenne quella grazia, mentre l’uccello Jatâyu ebbe il privilegio di essere assistito dai riti finali compiuti per mano stessa di Râma ed ottenne la liberazione dopo aver ricevuto da Râma in persona le salutari gocce d’acqua.
(Swami narra la storia dell’ardente attesa di Râma da parte di Sabarî e come ella avesse fatto ogni preparativo per accoglierlo e gli avesse offerto i frutti più dolci). L’intensa devozione di Sabarî per Râma le meritò la ricompensa.
Dio conferisce la Sua grazia a seconda dei meriti di ciascuno. Ciò che caratterizza il Divino è la Grazia e non la collera. Ma i devoti hanno la tendenza a vedere i metodi di Dio secondo le loro proprie predilezioni. Un uomo davanti allo specchio vi vedrà riflessi i propri stati d’animo.
Nessuno può sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni, qualsiasi sforzo egli compia per evitarle.
(Swami canta un motivo con questo ritornello:)
«Si può forse scampare al karma, o uomo?»
Come l’azione, così la reazione.
Nell’ambito dell’Universo, la Natura rappresenta lo specchio, e Dio è l’osservatore. Tutto quanto è riflesso nella Natura è divino. Esiste solo l’Uno. Gli oggetti e le immagini appaiono per la presenza dello specchio; ma, se leviamo lo specchio, sparisce anche l’immagine. È il mistero della Natura e delle meraviglie del Signore. Le glorie di Dio sono molteplici e stupende oltre ogni descrizione.
L’aritmetica di Dio è diversa da quella umana. Quando, ad esempio, ti metti davanti ad uno specchio, vedi tre entità: te stesso, lo specchio e la tua immagine riflessa. Quando togli lo specchio, secondo l’aritmetica classica, tre meno uno dovrebbe fare due. Eppure, quando levi lo specchio, rimani solamente tu. Dunque, tre meno uno... fa uno!
Molti pensano, molti dicono: «Coi soldi si fa tanto, tanto, tanto», ma IO vi dico: «Coi soldi si fa un gran danno». La gente imparerà a fare buon uso del denaro solo quando avrà capito la differenza che passa fra il punto di vista del mondo e il punto di vista di Dio.
“Voi ed Io siamo Uno”
In questo sta il significato che distingue l’insegnamento non dualista di Shankara. Shankara rapportò le esperienze della vita quotidiana alla dottrina dell’unità spirituale. Dio è uno solo, sebbene sia adorato sotto differenti nomi e forme: Allah, Gesù, Buddha, Zoroastro, Râma, Hari o Hara. Sono tutti la stessa cosa. Shankara non approvava che Dio venisse descritto come madre, o come padre o altro. Il rapporto che esiste tra Dio e l’uomo è un rapporto di unità. «Voi ed Io siamo una sola cosa»: questa è l’essenza della dottrina advaita. Tale consapevolezza di unità, secondo Shankara, può donare una gioia infinita.
L’esperienza dell’unità non giunge a buon prezzo. Bisogna porsi in un serio atteggiamento di ricerca e praticare anche delle discipline spirituali (samskâra). Quando i samskâra sfociano nell’affinamento dello spirito, è in arrivo l’esperienza dell’unione con Dio. Che fortuna poter vivere quell’esperienza! Non esiste al mondo una fortuna maggiore.
Colui che vive questa esperienza è il Signore dell’Universo e, in quanto padrone del Sé, è il Signore del Cosmo. Questo Âtma è presente in ciascuna cellula del corpo umano e l’uomo che si rende conto di questa dolcissima verità, non andrà più in cerca di cose effimere. Ognuno dovrebbe quindi anelare al nettare della duratura beatitudine atmica.
Shankara compì ogni tentativo per propagare il messaggio advaita alla nazione intera e alle persone di ogni ceto, fossero esse re o comuni cittadini, eruditi o incolti.
La promessa alla madre
Shankara aveva promesso alla madre che l’avrebbe raggiunta e assistita quand’ella fosse giunta alla fine della sua vita, per compiere gli ultimi riti e, giacché egli era un’anima pura ed altamente evoluta, era deciso a mantenere la parola data. Per chi ha un cuore puro la parola data è un dovere irrinunciabile; inoltre, qualsiasi cosa dica il puro, si avvera.
(Swami riporta un episodio dal Mahâbhârata per mostrare come il Divino scelga tempi e situazioni adeguati per esprimere la Sua grazia e per trasmettere il Suo messaggio. Nel caso di Ârjuna, la guerra del Kurukshetra rappresentò il momento giusto perché Krishna saggiasse la sua fede completa in Lui e la prontezza e disponibilità che gli meritarono di ricevere il messaggio della Gîtâ).
Prasanthi Nilayam, Sai Kulvant Hall, 8 Settembre1996.
Estratto del discorso
da: Mother Sai n°1/1997