La Grazia di Dio dona beatitudine eterna
I Rishi che prescrissero i riti e le cerimonie sacrificali non li destinarono all’uso di una comunità o paese o periodo particolari, essi sono validi per ogni paese, per ogni persona e ogni tempo. La benedizione che si dà alla fine di un Yajna è Samasta Lokah Sukhino Bhavantu (Che gli esseri di tutti i mondi siano felici).
L’essere costantemente consapevoli della Divinità è Sacrificio
L’uomo non può stare senza commettere azioni (karma) neppure per un momento; per tutte le ventiquattro ore del giorno, per trecentosessantacinque giorni all’anno, egli deve fare un’azione o l’altra. In effetti, anche l’inalare ed esalare il respiro è karma. I Veda hanno chiamato questa attività incessante Nishta (perseguimento continuo) ed essa, quando viene fortificata da una grande determinazione, assume la forma di consacrazione. Offrire a Dio questo sforzo dedicato è rito. Il rito non è un’attività separata: quando l’inalazione e l’esalazione del respiro sono regolati e si sperimenta la consapevolezza di Io sono Quello (Soham Tattva ovvero Brahman), quella attività stessa diventa un rito; se ci si attiene all’assioma Il rito è in verità l’incarnazione del Signore Visnu (Yajno Vai Vishnu), il respiro assume la Sua forma. Non considerate il processo della respirazione un’attività casuale consistente di un inalare ed esalare rutinario, inalate dicendo la parola So e dite Ham nell’esalazione; il Soham non è altro che il ricordare costantemente di essere un’incarnazione della Divinità. La respirazione, se viene attuata in questo modo con continua consapevolezza della Divinità, diventa rito. I riti sono di due specie: interiori ed esteriori. Il rito interiore è lo sforzo di raggiungere la Divinità all’interno di se stessi; il Divino è in tutti e può essere raggiunto solamente tramite la meditazione. La mente è l’altare sacrificale sul quale ognuno deve offrire tutte le proprie qualità cattive.
Officiate i riti secondo le direttive dei Veda
In questo mondo, tutti i compiti devono essere eseguiti secondo regole e regolamenti determinati violando i quali è impossibile ottenere il successo. Un ingegnere che si pone alla costruzione di un edificio decide il tipo di fondazione da gettare seguendo certe regole; il numero dei piani da costruire dipende dal tipo di terreno e dalle fondamenta gettate. Similmente, per officiare un rito, devono essere approntati nel modo prescritto dalle Scritture un luogo per il fuoco sacrificale e un altare; l’altare va costruito precisamente in accordo con le misure predeterminate altrimenti lo stesso scopo del rito viene vanificato. Il fuoco (Agni) è di tre tipi: dakshinagni, garhapatyam and avahaniyam. Quello usato da un capofamiglia in concomitanza con i suoi rituali giornalieri è chiamato Garhapatyam, quello che si usa per propiziare le Divinità con i Mantra Vedici si indica con Avahaniyam e l’altro tipo, che viene usato durante le cerimonie mensili e annuali per i defunti, è il Dakshinagni. A questo proposito, potrebbe sorgere la domanda sul perché di tre tipi di Agni quando la sua natura è la stessa dovunque; la risposta è semplice davvero: non classifichiamo noi Agni in pakvagni (fuoco usato per cucinare) e smasanagni (fuoco usato per cremare i corpi)? Noi non offriamo la nostra obbedienza a questi due tipi di fuoco, noi presentiamo le nostre oblazioni contando i Mantra Vedici e invitando le Divinità relative soltanto al fuoco sacrificale. Come c’è differenza tra una cassetta della posta collocata dal ministero relativo e una cassetta di casa nostra che serve per riporre gli oggetti, c’è una differenza notevole tra il fuoco acceso nel cuore della casa e il fuoco sacrificale che si accende con l’arani (strumento di legno con cui si accende il fuoco in modo tradizionale) mentre si cantano i Mantra Vedici. Come il fuoco cui non si fa la dovuta attenzione può causarci del danno, una qualunque noncuranza o disattenzione, mentre si cantano i Mantra durante i riti, causerebbero danni seri alle persone coinvolte; per questo, i sacerdoti Vedici devono porre l’attenzione necessaria nel cantare i Mantra Vedici con consapevolezza piena del modo e del tono in cui un Mantra particolare deve essere cantato. Anche la più piccola deviazione nel tono e nel contenuto dei Mantra porta ad errori notevoli; la persona che si trova nella posizione di capo sacerdote (advaryu) subirà le conseguenze di questi errori. Egli è responsabile di ogni errore che si verifichi nell’esecuzione del rito ed è per questo che si sottopone ad un rituale di purificazione personale dopo il completamento del rito. L’advaryu ha la responsabilità di controllare costantemente i vari rituali come le oblazioni (homa), l’offerta di obbedienza al Dio Sole (Surya Namaskar), la recitazione del Ramayana, del Bhagavata o del Durga Saptashati durante il rito; egli deve assicurare che nessun errore si verifichi durante l’esecuzione del rito. Se siamo a conoscenza del Mantra come del suo significato, potremo visualizzare la forma dietro quel Mantra particolare. Recitare “Rudrascha Mey” o “Bhadrascha Mey” meccanicamente non serve a niente, diventa un recitare i Mantra solo come suono e non si otterrà alcun risultato. I Mantra Vedici vanno recitati conoscendo almeno un poco il loro significato. I saggi del passato non erano sciocchi ignoranti e i Mantra e i riti che strutturarono e prescrissero non erano nati dall’entusiasmo amatoriale; essi sono il risultato della saggezza e della esperienza effettiva. Coloro che non hanno consapevolezza di questa verità pronuncieranno i Mantra in modo casuale; quelli che riflettono sul significato, e provano l’emozione dell’esaltazione e della supplica, possono trarne gioia. Recitarli senza comprendere il loro significato può dare una piccola soddisfazione superficiale ma l’inno può sgorgare dal cuore solamente quando il significato è sentito profondamente.
I sacrifici rituali portano pace e prosperità
Nei sacrifici rituali, le offerte sono indirizzate come Rudraya Namah, Varunaya Namah, Indraya Namah, Vayave Namah e vengono poste nel fuoco per Rudra, Varuna, Indra e Vayu. I saggi visualizzano Dio in queste forme. Dopo che i campi sono stati arati e il seme sparso, noi vogliamo la pioggia per ottenere un raccolto abbondante; così la preghiera è diretta a Varuna, all’indirizzo di Varuna. Se desiderate che venga Kasturi ma chiamate Kutumba Rao, come potete raggiungere lo scopo? Per la pioggia dovete chiamare Varuna e non Agni! Questo significa che si deve pronunciare il Mantra appropriato e la sua recitazione deve sgorgare dal cuore. Dietro il fuoco sacrificale c’è un piccolo mistero che deve essere svelato in modo che voi possiate comprendere come l’offerta, indirizzata alla Deità che viene invocata dal Mantra pronunciato mentre la si mette nel fuoco, possa raggiungere proprio quella Deità. Nel momento in cui l’offerta viene posta nel fuoco nel nome di Dio, si deve pronunciare il nome e l’indirizzo giusti. E’ come la cassetta postale: una lettera, se è indirizzata correttamente e posta nella cassetta a Prashanti Nilayam, raggiunge qualunque luogo anche lontano come la Russia o il Giappone, se l’indirizzo indica Prashanti Nilayam, verrà recapitata alla persona che vive lì. Bisogna che l’indirizzo sia completo e corretto e il francobollo sia del valore adeguato, questo è tutto.
Le offerte fatte nei sacrifici rituali portano varie ricompense
Ci sono persone che guardano soltanto le azioni esteriori del rituale e rimproverano ai bramini di versare il ghi nel fuoco mentre gli uomini sono malnutriti e affamati, li accusano di spendere scioccamente del denaro in attività infruttuose; anche persone colte si uniscono a questa condanna ignorante. Il contadino ara il campo, prepara gli appezzamenti, li annaffia e li rende adatti a ricevere i semi; poi sparge quattro sacche di riso sul terreno. Un ignorante che non conosce le pratiche colturali ride di lui: “Tu sei diventato matto. La gente ha fame e tu getti in terra il riso che essa mangerebbe volentieri!” ma quell’uomo pazzo, in cambio delle quattro sacche di seme perdute, porterà a casa quaranta sacche di riso dopo la raccolta. Se si versano ritualmente nel fuoco sacro due scatole di ghi, il mondo guadagnerà duecento scatole di ghi. Qualunque cosa si dedichi e si offra a Dio non può mai essere perduta; le persone possono ottenere benefici immensi offrendo anche poco a Dio. Una foglia, un fiore, un frutto o un po’ d’acqua sono sufficienti se offerti con devozione. Draupadi dette a Krishna un pezzetto di foglia che era rimasta appiccicata dentro la pentola e Dio le concesse la buona sorte eterna; Kuchela dette una manata di riso secco e ricevette da Dio la consapevolezza della Sua storia senza fine. Il rito sacrificale testimonia questo significato interiore.
Il rito rappresenta il sacrificio
I riti sacrificali vengono eseguiti con lo scopo di ottenere qualcosa o di liberarsi da ciò che non si desidera ma il significato reale del Yagna è il sacrificio; questo chiede a sua volta di sacrificare le qualità malvage come la gelosia, l’ostentazione, la sottomissione ai desideri e l’ego. I Veda propongono all’essere umano di sacrificare le qualità animali che, finché permangono in lui, lo fanno considerare un animale. La malattia del legame con il mondo (bhavaroga) si aggrava concedendo alla persona ogni cosa che desidera; in questo modo non guarirà mai. E’ per questo che Dio non concede tutto ciò che un essere umano desideri. In effetti, la maggioranza della gente non chiede ciò che è desiderabile. Se pregate Dio di spargere la Sua Grazia che può concedere la beatitudine eterna, Egli ve la darà certamente. Noi pensiamo che Dio sia duro di cuore e senza compassione; se c’è unità tra pensieri, parole e azioni, l’uomo diventa sincero e Dio gli concede sicuramente la Grazia affinché progredisca nelle cose del mondo come in quelle spirituali. Egli dona la felicità ora e sempre. I riti sacrificali si fanno per invocare le benedizioni del Divino per la pace e il benessere dell’universo; quando Egli risponde con la Grazia, il benessere di tutti è assicurato. I yagna hanno anche un altro significato: offrire al Signore ciò che Egli ha dato all’uomo è un dovere primario per l’aspirante spirituale e l’offerta non deve essere considerata come il sacrificio di qualcosa ma come un atto d’amore e gratitudine di cui si gioisce. Il significato interiore del sacrificio rituale è la rinuncia, il sacrificio o l’abbandono. Per chi? Per il Divino. “Signore! Ti offro il cuore che Tu mi hai dato” è lo spirito di quella rinuncia. Il cuore che Egli ha dato, i sentimenti che evoca, la ricchezza che ha donato, la fama che ha conferito devono essere offerte volentieri in restituzione a Dio. Ciò che viene raccomandato è il sacrificio della mente instabile dedicandola a Dio in modo che diventi stabile e calma. Sacrificio non significa prendere un animale e ucciderlo; questo è attenersi al significato letterale ed esteriore dell’ingiunzione, non a quanto essa comporta di interiore e valido. Date ascolto al significato degli aforismi e rituali vedici e alle raccomandazioni delle scritture con concentrazione pura, gioiosa e priva di egoismo; conservatele nel cuore per praticarle giornalmente e dividerle con altre anime volenterose. Le idee errate a riguardo dello scopo dei riti sacrificali hanno portato a dimenticare il loro fine vero e a sacrificare degli esseri viventi. Yajna è detto anche adhvaram; dhvaram significa uccisione per cui a-dhvaram ha il significato di non-uccisione e yajna è qualcosa in cui non c’è violenza. Tutti i Mantra usati nei riti devono condurre alla beatitudine e alla auto-realizzazione; questa giunge solamente quando la rilevanza dei Mantra viene compresa e sperimentata pienamente.
Usate la conoscenza, la ricchezza e il potere per il bene degli altri
Il significato essenziale dei riti sacrificali si trova nello spirito di sacrificio. La conoscenza, la ricchezza e il potere che non sono usati per il bene degli altri sono inutili. L’obiettivo dei Yajna è quello di far comprendere all’uomo che tutti i poteri che gli sono stati dati dovrebbero essere offerti al Divino per l’elevazione della sua vita. Il mondo ha innumerevoli persone facoltose, studiosi profondi e scenziati valenti ma, se essi non hanno compassione e gentilezza, la loro ricchezza o conoscenza non servono a niente. Solamente quando decidiamo di offrire tutto ciò che abbiamo per favorire il benessere del mondo e il bene della società ci dedichiamo al Yajna effettivo; senza fede in Dio e spirito di sacrificio, tutte le azioni produrranno soltanto il male. Oggi l’uomo ha fatto progressi considerevoli nella scienza, lavora per acquisire riccezza, istruzione e abilità di vario tipo; a cosa serve acquisire tutto questo se non se ne fa un uso corretto? L’uso di queste cose dipende dal carattere di colui/lei che le possiede: saranno usate per il bene se questi è buono e saranno sprecate se è cattivo. Se la ricchezza, la conoscenza e la specializzazione scientifica sono possedute da persone caratterizzate dal Rajo Guna (qualità della passione) saranno usate a fini sbagliati; se le hanno persone che soggiacciono al Tamo Guna (qualità dell’accidia) saranno usate solamente a fini egoistici. A volte, le persone distinte dal Rajo Guna possono correggersi ma quelle che sono nel Tamo Guna useranno le loro capacità ed energie in modo dannoso e antisociale. L’uomo deve quindi coltivare primariamente la capacità di discriminazione tra il giusto e l’errato. Il Gayatri Mantra dichiara “Dihyo yo nat prachodayat” che è una preghiera rivolta alla Dea Gayatri affinché illumini la mente. La preghiera preferita dal caro Gandhi era Sab Ko Sanmathi De Bhagavan (Signore, dona il buonsenso a tutti). Dato che oggi uomini dalla mente malvagia sono attivi dovunque, il mondo soffre di violenza, disordine e confusione. Troppe persone ricche preferiscono accumulare le loro ricchezze invece di utilizzarle per il bene della società e per alleviare la sofferenza dei pover; così si comportano da cani nelle mangiatoie. I tempi fausti sono quelli in cui ogni persona che desidera vivere onestameante e proficuamente decide di impegnarsi nel servizio alla società e destina tutta la sua ricchezza ed energia a spandere gioia nella comunità. L’uomo deve capire che la rinuncia è la fonte più grande di beatitudine vera.
Estratto dai Discorsi di Bhagavan compilati nel “Sri Sathya Sai Veda Vani”