Le responsabilità dell’organizzazione del servizio disinteressato (sevâ dal) sono elevate; esso deve condurre i membri, e attraverso di essi tutta l’umanità, lungo il sentiero dell’impegno spirituale (sâdhanâ) che porta l’individuo dalla situazione di “io” a quella di “noi”. Questo da al sevâ dal l’importanza che merita, lo si può comprendere soltanto quando si scavi profondamente nel suo significato. Voi dovete elevare ogni lavoro a livello di adorazione e cercar di riempire ogni attimo della vostra vita con questa prospettiva; soltanto allora potrete giustificare la vostra appartenenza all’Organizzazione.
Attraverso l’agire, l’uomo ottiene la purezza di coscienza; egli deve effettivamente accogliere l’attività mirando a tale obiettivo ma per quale ragione occorre lottare per una coscienza pura? Immaginate un pozzo d’acqua fangosa e inquinata tanto da non vederne il fondo: allo stesso modo, dentro il cuore dell’uomo, nel profondo della sua coscienza, c’è lo Spirito Divino (Âtma). Esso, tuttavia, può esser conosciuto solamente quando la coscienza viene purificata. La vostra immaginazione, le vostre deduzioni, i vostri giudizi e pregiudizi, le vostre passioni, emozioni e desideri egoistici infangano la coscienza e la rendono opaca. Com’è dunque possibile diventare consapevoli dell’Âtma che è il fondamento vero e proprio? Soltanto per mezzo del servizio disinteressato (sevâ), reso senza desiderio alcuno di soddisfare l’ego e con unico obiettivo di ottenere il bene altrui, è possibile purificare la coscienza e far sì che l’Âtma si riveli.
Facendo servizio disinteressato si serve il miglior interesse personale
Allora per il bene di chi state compiendo il servizio? Lo fate per il vostro stesso bene. L’impegno nel servizio serve a farvi prendere coscienza dell’Âtma in voi in modo da poter abbandonare le lusinghe dell’ego, conoscere voi stessi e avere la risposta alla domanda che vi assilla, ovvero: “Chi sono io?”. Voi non servite gli altri, servite voi stessi, né servite il mondo, servite il vostro interesse più alto. In voi potrebbe sorgere la domanda: com’è possibile trascendere l’ego per mezzo del servizio? Colmandolo d’amore, il lavoro può essere trasformato in adorazione; quando lo si offre a Dio, esso viene santificato in rito di adorazione (pûjâ) e questo lo rende libero dall’ego. Esso viene anche affrancato dal desiderio terreno di successo e dal timore del fallimento. Quando avete svolto il compito al meglio, voi sentite che l'adorazione è compiuta; sta poi a Colui che l’ha accettata conferirvi quanto ritiene meglio. Tale atteggiamento libererà il lavoro dall’attaccamento (nishkâma)e la pratica regolare di questa disciplina renderà chiara e limpida la coscienza e la porterà alla purificazione (cittashuddhi). Come può l’uomo sperar di scalare le vette spirituali senza questo strumento primario? Quasi tutti i grandi saggi del passato trascorsero i primi anni della loro vita seguendo discipline spirituali che garantirono loro una coscienza pura. Qualunque possa essere la vostra prospettiva di carriera, per quanti mezzi possiate accumulare per una vita agiata, a qualunque livello autorevole possiate essere arrivati grazie alla vostra intelligenza, i vostri profitti saranno vani se ogni attività non sarà stata permeata della purezza divina che è nella vostra coscienza.
Siete premiati o puniti in base alle vostre azioni
Illustrerò questo punto: prendete una comune busta da lettera e, con un inchiostro color oro e in bella grafia, scriveteci sopra l’indirizzo di una persona, inseritevi una lettera piena di belle parole e di sentimenti esaltanti, poi imbucatela nella cassetta postale. Che cosa ne avverrà? Non si sposterà da quella cassetta neppure di un millimetro. Prendete ora una semplice cartolina, una cosa modesta e a buon mercato, scriveteci senza particolare accuratezza l’indirizzo, buttate giù alla bell’e meglio le notizie che intendete trasmettere, attaccatevi il francobollo e imbucatela nella stessa cassetta. Osservate che cosa accade! La lettera artisticamente decorata rimane lì ferma mentre la cartolina, economica e alquanto scialba, viaggia per migliaia di miglia verso il destinatario. Pertanto, qualunque sia l’unicità o l’importanza, la bellezza o l’attrattiva, il servizio che fate non porterà frutto se effettuato senza purezza di pensiero (citta).
La vostra brama di fare servizio e il vostro entusiasmo mentre lo svolgete vi salvano dal male. Dio è il testimone; Egli non ha il desiderio di benedire né l’ira Lo induce a punire. Voi siete benedetti e puniti come risultato dei vostri sentimenti e delle vostre azioni. Yad bhavam tad bhavati: come pensate e vi comportate, così vi accade.
Cattive azioni non producono mai bene,
buone azioni non generano mai male.
I semi di neem non producono manghi,
i semi di mango non generano mai neem.
Pertanto, una persona può essere esperta in molti campi del sapere oppure maestra di numerosi mestieri e abilità materiali ma, senza pulizia interiore, il suo cervello è una landa desolata o un blocco di pietra senza traccia d’amore, compassione o virtù che si espande.
I rituali purificano raramente la coscienza dell’uomo
Come indicato nel Bhakthi Sutra (composizione letteraria in stile aforistico sulla devozione), dei nove gradini della sadhana spirituale che conducono alla realizzazione del Sé, dhasyam, ovvero l’atteggiamento del servitore nel compiere seva, è molto vicino alla meta finale; è l’ottavo gradino. Lo studio dei testi, la rinuncia alla ricchezza a favore di opere di carità, la ripetizione del nome o il canto di salmi o inni possono essere esercizi buoni per santificare la mente, per evitar di imboccare strade sbagliate e indulgere in divertimenti deleteri, ma ben di rado purificano la coscienza dell’uomo; invece, essi servono soprattutto a gonfiare l’ego, ad alimentare l’orgoglio e favorire una smania competitiva di superiorità. Potete essere seduti nella sala dei bhajan e cantare ad alta voce in coro ma la vostra mente può essere ansiosamente impegnata a pensare ai sandali che avete lasciato fuori, in un angolo della mente c’è sempre la paura di perderli; questo rovina i bhajan e li rende un esercizio inutile.
Il servizio reso a un essere sofferente raggiunge il Signore
La sadhana del seva è del tutto diversa. Nel seva voi impegnate tutta la vostra energia e attenzione al compito che avete sottomano poiché esso richiede dedizione, dimenticate il corpo e ignorate le sue esigenze, mettete da parte la vostra individualità, il suo prestigio e i benefìci accessori, sradicate l’ego e lo gettate via, rinunciate allo stato sociale, alla vanità, al nome e alla forma e mantenete puro ogni chitha (pensiero). Qualunque sia il compito che svolgete, rinunciate alla vostra individualità e condividete con Dio le fatiche e le difficoltà, i frutti e i benefìci. Non occorre portare Dio dentro di voi da chissà dove; Egli è in voi sempre e questa verità deve essere la vostra scoperta, il vostro tesoro, la vostra forza. Questo è lo scopo importante del Seva Dhal; ecco la ragione per cui gli viene assegnata una posizione elevata nell’Organizzazione Sathya Sai.
Una volta, un uomo pio stava andando da Kâshi a Rameshvaram, all’altro capo di questo vasto Paese, e portava con sé un po’ d’acqua sacra del Gange per mescolarla con quella del mare di Rameshvaram; ciò avrebbe costituito la fase finale di un pellegrinaggio lungo e arduo effettuato presso numerosi luoghi sacri e sacri fiumi. A metà del cammino, egli vide, sul bordo della strada, un asino negli ultimi spasimi di vita incapace di muoversi verso una qualunque sorgente per dissetarsi; la lingua riarsa e gli occhi roteanti indicavano il tormento per l’arsura estrema. Il pellegrino fu talmente scosso da quella scena drammatica da versare, nella gola dell’animale sconvolto, la preziosa acqua del Gange che recava con sé. Qualche attimo dopo, l’asino si riprese e riconquistò abbastanza forza da sottrarsi alle grinfie della morte.
Vedendo questo, il compagno del pellegrino gli chiese: “Maestro, la sacra acqua che hai portato da Kâshi doveva essere offerta all’oceano a Rameshvaram; perché hai commesso questo sacrilegio versandola nella bocca di questo animale spregevole?” L’altro rispose: “Ma io ho versato l’acqua sacra nell’oceano stesso, non vedi?” Qualunque servizio a un individuo (jîva) sofferente arriva al Signore Stesso e non può mai essere un sacrilegio perché sevâ al jîva è sevâ al Deva (Divinità). Abbiate sempre questa salda convinzione.
La Commedia recitata da Shiva e Pârvatî
Milioni di persone si recano a Kâshi come pellegrini; si dice che quelli che vedono quel luogo non rinasceranno. Un giorno, nel Kailâsa, Pârvatî chiese a Shiva: “Signore, ho sentito dire che tutti quelli che visitano Kâshi, dove c’è un celebre santuario per il Tuo culto, raggiungeranno il Kailâsa e rimarranno lì in Tua presenza; milioni di pellegrini stanno andando a Kâshi ma questo posto è abbastanza grande da dare alloggio a tutti? Shiva rispose: “Non tutti quei milioni di persone possono venire nel Kailâsa; inscenerò una commedia che ti chiarirà chi fra loro può venire qui. Anche tu hai una parte da recitare, fa’ come ti dico”.
Pârvatî diventò una vecchia di ottanta anni e Shiva un vecchio novantenne zoppicante. La donna attempata teneva il venerando in grembo proprio all’entrata principale del famoso santuario di Shiva di Vishveshvara e implorava pietosamente i pellegrini che andavano al tempio: “Mio marito è terribilmente assetato, sta per morire di sete e io non posso lasciarlo per andare al Gange a prendergli l’acqua; qualcuno di voi può versargli un po’ d’acqua in gola e salvargli la vita?”
Non c’è preghiera più fruttuosa del sevâ
I pellegrini salivano lungo i gradini sulla riva del fiume, dopo il bagno cerimoniale nelle acque sacre, con i vestiti ancora bagnati che si attaccavano al corpo; alcuni lamentavano che la loro pace fosse turbata dalla vista di quella coppia di disgraziati: “Siamo venuti per ricevere il darshan del Signore e guarda che cosa incontrano i nostri occhi!” Ve n’erano alcuni che ignoravano apertamente i suoi richiami e alzavano il naso in aria mentre altri dicevano: “Aspetta, lasciaci finire l’adorazione nel tempio e allora ti porteremo l’acqua del Gange”. Nessuno di essi si offrì di portare l’aiuto necessario all’anziano sofferente.
Proprio allora, un ladro che si stava affrettando a entrare nel tempio per svuotare qualche tasca, udì la voce lamentosa della vecchia, si fermò e le chiese: “Madre, che cosa c’è?” Ella rispose: “Figliolo, siamo venuti in questo posto per avere il darshan del Signore Vishveshvara di Kâshi ma mio marito si è sentito male per pura spossatezza; potrà sopravvivere se qualcuno porterà un po’ d’acqua del Gange e gliela verserà in gola. Io non posso lasciarlo qui e andare a prendere l’acqua; per favore, aiutami e guadagnati il merito”. Il ladro fu mosso a compassione; egli aveva un po’ d’acqua del Gange nella zucca vuota che portava con sé per cui si inginocchiò vicino al morente in grembo alla vecchia ma la donna lo fermò dicendo: “Nel momento in cui l’acqua del Gange bagnerà la sua gola, mio marito potrebbe morire; egli è all’ultimo stadio della vita perciò di’ una parola di verità e versa l’acqua”. L’uomo non riuscì a capire che cosa ella volesse dire così la vecchia gli spiegò: “Digli all’orecchio qualche buona azione che hai compiuto nella vita e poi versagli l’acqua in bocca”. Questo creò un problema al ladro; egli non sapeva che fare non potendo accondiscendere completamente per cui disse “Madre, in verità, finora non ho fatto alcuna buona azione; l’offrire acqua a quest'uomo assetato è la prima vera buona azione che posso addurre” e, così dicendo, mise la zucca alle labbra del vecchio e gli versò una sorsata. Istantaneamente la coppia sparì e al suo posto apparvero Shiva e Pârvatî che lo benedicevano. Shiva disse: “Figliolo, la vita deve essere consacrata al servizio agli altri e non soltanto ai propri interessi. Così, per quante azioni malvagie tu abbia fatto finora, per la tua offerta disinteressata di acqua del Gange fatta con sincerità, Noi ti benediciamo con questa Visione. Ricorda che non c’è moralità più alta della verità; non c’è preghiera più fruttuosa del sevâ (servizio amorevole disinteressato).
Tre stadi di ricerca su Brahman
Sulla via regale per la realizzazione spirituale, ci sono tre stadi menzionati nelle Scritture: karmajijñâsâ, dharmajijñâsâ e Brahmajijñâsâ. Jijñâsâ significa indagine profonda. Una persona diventa idonea a indagare su Brahman, e ad avere successo in tale ricerca, soltanto quando la sua coscienza è stata allenata e modellata dalla ricerca nella pratica attiva e nelle abitudini comportamentali cioè il karma (azione) e il dharma (rettitudine/dovere) che affinano e purificano. Chi discrimina adeguatamente prima di impegnarsi in qualche attività, è naturale che sia retto nella condotta e nel comportamento.
Un buon karma condurrà automaticamente a un buon dharma. Prendete, ad esempio, la salsa di cocco (chutney) fatta in casa che viene gustata solo dopo essere stata lavorata e preparata: quando la mangiate, scoprite se è stata salata oppure no. Se il sale non è sufficiente o manca del tutto, dovete mettercene la quantità necessaria per renderla gustosa ma non aggiungerete sale prima di averla assaggiata. Così i tre stadi sono: lavorare e preparare la salsa, assaggiarla e aggiungere il sale necessario. La preparazione è il karma, mangiare è il dharma e aggiungere il sale, per renderla saporita e nutriente, è Brahman. Azione, dedizione e adorazione: questa è la via per acquisire una coscienza pura.
Un atto, dedicato come offerta al Dio che dimora in tutti, diventa sacro come il servizio più nobile; votatevi a questo servizio. Gli Avatâr (Incarnazioni) di Dio sono impegnati nel servizio; è per questo che si manifestano per cui, quando offrite servizio al genere umano, l’Avatâr ne sarà ovviamente compiaciuto e potrete ottenere la Grazia. Questa è la grande possibilità che avete come membri dell’Organizzazione Sevâ Sathya Sai (Sevâ Dal); spero che ne facciate l’uso migliore e perciò vi do la Mia Benedizione.
Brindavan, 6 marzo 1977
(Sathya Sai Speaks, vol. 13, cap. 19)