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Il piano diabolico
Nei mesi che seguirono il rajasuya di Yudhisthira, Duryodhana cadde in uno stato depressivo tale da preoccupare tutti i suoi amici e familiari. Shakuni ne aveva capito subito le ragioni e, non tollerando di vedere il nipote in quello stato, aveva deciso ancora una volta di intervenire in suo favore.
"Oramai conosco bene le ragioni che non ti fanno essere di buon umore, e io che sono tuo zio ti voglio vedere felice. Vuoi sbarazzarti dei tuoi nemici una volta per tutte? Allora ascoltami bene. Tu sai che posseggo dei dadi dalle virtù magiche e che ho imparato alla perfezione la scienza di lanciarli in modo da vincere sempre. Tu sai anche che a Yudhisthira questo gioco piace molto, sebbene non sia particolarmente abile. Sfidiamolo a una partita, dunque, che presenteremo come un gioco innocente mentre invece porteremo via ai Pandava tutto ciò che posseggono. Resi schiavi i cinque fratelli, avrai avuto finalmente la tua rivincita. Naturalmente Yudhisthira potrebbe anche rifiutarsi di giocare contro di me, anche se non credo che lo farà; uno dei suoi voti è quello di non ritirarsi mai di fronte a una sfida, di qualsiasi tipo essa sia. Io credo che questa possa essere la soluzione ai tuoi problemi."
"Convinci tuo padre," continuò il vile Shakuni, "a costruire un sabha e poi insisti nell'invitare i tuoi cugini all'inaugurazione e a un gioco di dadi. Se ci riuscirai, i tuoi avversari saranno rovinati e tutta la loro fortuna diventerà tua."
Duryodhana fu immediatamente entusiasta all'idea e il giorno stesso convinse il padre a far cominciare i lavori per la costruzione di un sabha a Jayanta.
Appena Vidura, Bhishma, Drona e gli altri anziani furono a conoscenza della sua intenzione di sfidare Yudhisthira a un gioco di dadi capirono immediatamente le sue vere mire, proiettando nel futuro i disastri che ne sarebbero potuti scaturire. Nessuno si risparmiò ogni tentativo di convincere Dritarashtra a far cessare i lavori del sabha o almeno a non permettere la sfida dei dadi, ma non ci fu nulla da fare.
"Si tratta solo di una innocente partita ai dadi," dichiarava candidamente Duryodhana, "non capisco proprio le ragioni di tanto allarmismo per un semplice gioco di società."
Così i lavori continuarono, e quando il grande palazzo fu ultimato, il re cieco chiese a Vidura di andare a Indra-prastha per invitare i Pandava.
"E riferisci," fu il messaggio di Dritarashtra, "che per festeggiare il nuovo sabha mio figlio Duryodhana desidera giocare a dadi contro di loro."
Vidura sapeva bene che l'innocente gioco nascondeva in realtà un tranello e aveva il timore che quell'ennesimo tentativo di Duryodhana di rovinare i Pandava, quella volta avrebbe causato una catastrofe. Così disse:
"Caro fratello, il gioco d'azzardo è sempre stato fonte di discordie e spesso di odi. Fra tuo figlio e i cugini non è mai corso buon sangue, per cui credo sia saggio evitare ogni situazione che possa provocare ulteriori fratture. Questa partita a dadi è una pessima idea: io ti consiglio di non permettere che venga fatta."
"Ma è solo un gioco fra amici," ribattè Dritarashtra, "e non credo che possa causare alcunchè di grave. Non temere, Vidura."
Egli continuò ad avvalersi di mille altre ragioni, ma inutilmente. Il re cieco era fin troppo cosciente delle intenzioni del figlio, ma il desiderio di vederlo finalmente appagato era più forte di tutto, persino di sentimenti di giustizia e onestà.
Con una profonda tristezza nel cuore, Vidura partì alla volta della capitale dei Pandava.
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L'invito
Appena i messaggeri che precedevano Vidura arrivarono a Indra-prastha, Yudhisthira e i suoi fratelli uscirono dalla reggia per riceverlo con tutti gli onori e dimostrargli l'affetto che sentivano per lui. In quell'occasione i Pandava ricordarono di come egli li avesse salvati da tanti pericoli e di come fosse sempre stato il loro benefattore.
Quando Yudhisthira gli chiese le ragioni della sua visita, Vidura, vergognandosi profondamente, ripeté il messaggio che Dritarashtra gli aveva consegnato: non fu difficile per nessuno capire che dietro la sua apparente innocenza si celava un grave pericolo. Come abbiamo già avuto modo di dire, a Yudhistira piaceva giocare a dadi, lo sapevano tutti, e sapevano anche che non era molto abile in quel gioco.
"Se è vero che io non sono un campione, neanche il mio malvagio cugino lo è; sono sicuro che non giocherà lui in persona, ma delegherà qualcun altro ad affrontarmi in sua vece," disse Yudhistira. "Contro chi pensi che dovrò giocare?"
"Ci sono tanti bravi giocatori nella nostra corte," rispose Vidura, "ma qualcosa mi dice che di fronte a te troverai Shakuni. E' il migliore di tutti e ti odia quanto Duryodhana stesso."
Ci fu un momento di silenzio. Se Yudhisthira avesse affrontato il Gandhara, per lui non ci sarebbe stato nulla da fare: avrebbe perso tutto. Il piano del cugino era chiaro, ora.
"Il consiglio che posso darti," continuò Vidura, "é di trovare qualche scusa per non accettare l'invito. Il gioco d'azzardo deve essere evitato ad ogni costo da tutte le persone sane, che conoscono i principi della spiritualità: provoca sempre discordia tra i giocatori, cagionando ansietà senza fine e conflitti. E quando l'uomo perde il senno e la tranquillità e causa inimicizie, ogni sorta di catastrofe è possibile. Yudhisthira, non accettare l'invito. Questo piano è stato partorito dalla mente diabolica di Shakuni ed è stato subito accolto con grande gioia dal vile Duryodhana, il quale nel libro della sua vita ha scritto che avrebbe causato morti e distruzioni: quindi non ne può uscire niente di buono. So che giocare ti piace, ma non devi soccombere all'intossicazione del gioco e non devi accettare quest'invito."
Yudhistira rifletté a lungo. Poi rispose.
"Vorrei tanto poter seguire i tuoi buoni ammonimenti che, come sempre, contengono tanta saggezza ma, come sai, uno kshatriya non può rifiutare una sfida sia a un duello di armi che a un gioco di dadi: per di più questo è un mio personale voto; inoltre bisogna anche riflettere sul fatto che se devo governare un regno così vasto non posso mostrare codardia, altrimenti ne risentirebbe la stima e la fiducia che la gente nutre nei miei confronti. Dunque devo andare. Se perderò tutto, sarà stato destino, e contro di esso che possiamo fare? L'unica cosa che posso promettere è che cercherò con tutte le mie forze di non farmi prendere troppo la mano, e di non puntare forte."
Il giorno dopo, accompagnati dalla moglie Draupadi, i Pandava partirono per Hastinapur.
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Il gioco dei dadi
Inondato da un folla immensa accorsa per l'inaugurazione, il sabha dei Kurava era veramente stupendo.
Tra gli invitati vi furono ad accogliere con calore i Pandava i re che avevano partecipato al rajasuya. Anche i Kurava li accolsero bene, nascondendo i loro veri propositi. Accompagnati nei loro appartamenti, i fratelli trascorsero una notte serena.
La mattina seguente Duryodhana andò personalmente a invitarli.
"Venite ad ammirare il mio nuovo sabha, che ho fatto costruire a Jayanta per l'occasione. Vi piacerà sicuramente."
Un pò tesi e innervositi dall'evidente falsità malcelata dalla cortesia del cugino, i Pandava visitarono la reggia, elogiandola con frasi gentili e piene di ammirazione.
Dopo che ebbero terminato la visita, Shakuni disse:
"Ora che abbiamo visto il mirabile sabha dei Kurava, per festeggiare direi di cominciare il gioco dei dadi."
"Io credo che il gioco dei dadi sia come il vino e che porti via all'uomo ogni capacità di buon giudizio," disse Yudhisthira, tentando di evitare ciò che irreparabilmente avrebbe portato al disastro. "L'azzardo è veleno per ogni uomo virtuoso e perciò preferirei evitarlo."
"Yudhistira," ribattè con tono ironico Shakuni, "ho sentito dire che la tua ricchezza é così grande che mai nessun monarca ne ha avute di simili, e capisco che il denaro per te, abituato alla vita di foresta, sia una cosa così nuova da farti diventare avido; ma ti prego, cerca di controllare l'avarizia. Giocando con noi non sei forzato a puntare tutto; noi vogliamo farlo per divertirci, e non per portare via i tuoi averi."
Con queste parole Shakuni lo aveva beffeggiato davanti a tutti; ma Yudhisthira cercò di mantenere la calma e di non raccogliere la provocazione.
"Il gioco uccide l'amicizia e attrae le disgrazie più nere," rispose. "E' per questo che non voglio; non certo per paura di perdere i miei beni."
Shakuni incalzò e lo ridicoleggiò pubblicamente.
A quel punto il Pandava non potè più tirarsi indietro.
"Visto che mi hai sfidato non mi rifiuterò. Che il gioco abbia inizio."
E Duryodhana disse:
"Non giocherò io personalmente, ma incarico mio zio Shakuni di rappresentarmi."
Yudhisthira protestò perchè avrebbe dovuto giocare lui e non altri, ma alla fine dovette sottostare a tale decisione.
E il gioco cominciò.
Si mise subito male: Yudhisthira iniziò col puntare grandi tesori, ma Shakuni rispondeva con lanci infallibili: e più la posta in palio saliva, più si facevano forti i mormorii che accompagnavano le vittorie del Gandhara. E ancora il figlio di Yamaraja puntò e Shakuni, implacabile, vinse ancora.
Si giocò per svariato tempo. Oramai tutti avevano compreso il piano diabolico di Duryodhana, e così poco alla volta le grida erano andate scemandosi fino a interrompersi del tutto. Il silenzio era totale. Nella sala si udiva solo una voce, quella di Shakuni che diceva con entusiasmo: "Ho vinto".
Man mano che il gioco procedeva, i re presenti sentivano gelarsi il sangue nelle vene. Tutti erano consapevoli che quel gioco avrebbe causato una reazione a catena di odi e sangue.
Il gioco continuava e Yudhisthira sembrava essere pervaso da una follia suicida: più perdeva più aumentava la posta in palio. Sembrava che ormai l'intossicazione del gioco d'azzardo lo avesse sopraffatto. Nel gelo della sala le parole che Shakuni continuava a gridare, "ho vinto", suonavano come frustate, o ancora meglio condanne a morte per migliaia di kshatriya e lacrime per tutti gli altri. Quando Yudhisthira ebbe ormai perso tutte le sue ricchezze, Vidura intervenne.
"Questo gioco deve essere interrotto qui," gridò, "e deve essere tutto restituito, o neanche immaginate cosa potrà accadere."
Ma Dritarashtra, oramai preso dall'eccitazione febbrile della vittoria, continuava a chiedere, "cosa ha vinto mio figlio? quali tesori ha vinto?" e non degnò neanche di una risposta il fratello minore. Gli rispose invece Duryodhana.
"Caro zio," disse in tono ironico, "sebbene anche noi siamo tuoi nipoti, non sei mai stato imparziale negli affetti e hai sempre preferito i figli di Pandu a noi, figli di Dritarashtra. Tutti lo sanno, ma ora mi sembra che tu stia esagerando. Noi non stiamo facendo nulla di male, stiamo solo giocando, e Yudhisthira ha accettato liberamente di partecipare. Sta perdendo, d'accordo, ma avremmo potuto perdere noi e allora io sono sicuro che in tale frangente non avresti detto che tutto doveva essere restituito. Queste sono le regole del gioco, e certamente non daremo indietro ciò che abbiamo vinto. E per quanto riguarda la continuazione, noi lo sfidiamo ancora, però se Yudhisthira ha paura può ritirarsi quando vuole."
Ma questi disse:
"No, continuo a giocare."
A quel punto, avendo già perso tutto, la sua puntata fu Nakula. Ma perse ancora.
Poi giocò Sahadeva, poi Arjuna e Bhima, e poi sè stesso, e il risultato fu sempre uguale. Allora, in un silenzio glaciale, il lancio dei dadi si fermò: avevano perso tutto, i Pandava erano diventati proprietà di Duryodhana.
"Yudhisthira," disse Shakuni con voce squillante, "sembra che non ti sia rimasto proprio niente; ma se vuoi andare avanti hai ancora qualcosa di tuo: Draupadi. Gioca anche lei, e se questa volta vincerai riavrai tutto ciò che hai perso finora."
A quella proposta forti mormorii di disapprovazioni salirono dalla folla. Bhima ebbe un impeto di furia e strinse la mano possente sul manico della mazza, pronto ad uccidere Shakuni con un colpo solo. Tuttavia in quella circostanza non poteva reagire senza il permesso del fratello, così si controllò.
La sorprendente risposta di Yudhisthira raggelò tutti molto più della proposta.
"E sia. Draupadi è ora la mia puntata," disse.
E per l'ennesima volta i dadi furono lanciati, e ancora si udì la voce di Shakuni che diceva: "ho vinto!"
A quel punto si levarono parole frementi di rabbia e il tutto in pochi secondi sfociò in forti tumulti. Draupadi ora era una schiava: i Pandava avevano perso proprio tutto.
Cosa sarebbe successo ancora?
44
Gli insulti a Draupadi
Appena il clamore si fu placato, tutti guardarono i Pandava, e Duryodhana, e Dritarashtra, in attesa di nuovi eventi. Una gelida sensazione di morte circolava fra i presenti e le espressioni di Arjuna, di Bhima e dei gemelli non promettevano nulla di buono: Bhima soffiava come un toro infuriato, il figlio di Indra brandiva l'arco e la faretra in chiaro atteggiamento di minaccia, mentre Nakula e Sahadeva avevano le mani sull'impugnatura delle spade, pronte a scattare.
Consapevoli della piega terribile che gli avvenimenti avevano preso, Bhishma, Kripa, Vidura, Drona e tutti gli altri re e saggi si sentirono costernati, preoccupati per ciò che sarebbe potuto accadere. La storia era a una svolta allarmante. Solo Dritarashtra e suo figlio erano visibilmente felici: il Kurava infatti si alzò dal seggio e abbracciò con trasporto lo zio.
Sempre più infuriati, i Pandava aspettavano solo un cenno del fratello maggiore per scatenarsi in battaglia; dentro di loro non desideravano altro che il massacro di quei malvagi. I dadi erano truccati e loro sapevano bene di essere stati ingannati; ma Yudhisthira non diceva niente, guardava sconsolato il pavimento e si muoveva appena.
Ad un tratto si udì la voce di Duryodhana, per nulla impressionato dall'aspetto minaccioso dei cugini.
"Mio caro zio," disse rivolgendosi a Shakuni, "ti ringrazio a nome della mia famiglia per le ricchezze che sei riuscito a guadagnare e non dobbiamo preoccuparci se i nostri cugini ci minacciano con gesti e frasi pronunciate a denti stretti. Noi abbiamo conquistato con piena legittimità i loro tesori, ed è ora che anch'essi imparino a perdere. Ma non pensiamo più a loro: godiamoci questo momento di gioia. Piuttosto chiamate Draupadi e fatela venire qui, in modo che possiamo dirle che non è più una regina ma la moglie di cinque schiavi. Affidiamola oggi stesso alle nostre istruttrici, cosicchè possa imparare presto i suoi doveri di servitrice."
"Duryodhana," gridò Vidura, "Draupadi non è la tua schiava. Quando Yudhisthira ha giocato per l'ultima volta, aveva già perso sè stesso e non poteva più disporre di nulla. Inoltre devi considerare che è anche la moglie dei suoi fratelli, ai quali Yudhisthira non aveva chiesto il permesso di metterla sul tavolo delle puntate. Dunque Draupadi non è stata vinta.
"Inoltre, Duryodhana, ti avverto: non provocare ulteriormente i Pandava, la loro pazienza può finire. Guardali, una sola parola in più e distruggeranno in pochi istanti te, i tuoi parenti e i tuoi amici. Non insultare Draupadi chiamandola schiava. Un atto simile potrebbe significare la tua fine."
A quelle parole Duryodhana ghignò e non degnandolo di una risposta si rivolse a Pratikami.
"Amico mio, va da Draupadi nei suoi appartamenti e dille di venire immediatamente. Il suo nuovo padrone, Duryodhana, il figlio di Dritarashtra, le ordina di presentarsi al suo cospetto."
Osservando le espressioni dei Pandava, questi esitava, dubbioso sul da farsi.
"Hai paura dei figli di Pandu?" gli disse allora il Kurava con tono di derisione. "Non averne. Sono nostri schiavi. Sono come dei serpenti il cui veleno è stato asportato. Non possono fare più male a nessuno, oramai."
A quelle parole Pratikami raggiunse velocemente le stanze della regina e le raccontò l'accaduto.
Questa, stupefatta, disse:
"Torna da mio marito e chiedegli se ha perso prima sè stesso o me."
Pratikami tornò alla sala e si rivolse a Yudhisthira, che se ne stava a capo chino, senza più guardare in viso i suoi oppressori.
"O re, la tua consorte vuole sapere se hai perso prima lei o prima te stesso."
Ma poichè questi non rispondeva, Duryodhana si alzò e con voce tonante ordinò:
"Amico, Yudhisthira non se la sente di dare spiegazioni. Torna subito da lei e dille che suo marito si rifiuta di risponderle. Dille di venire di persona a porre la questione."
Quando Pratikami uscì di nuovo dalla sala, l'atmosfera di tensione era cresciuta a dismisura: negli occhi di Bhima, Arjuna, Nakula e Sahadeva si poteva leggere la rabbia frustrata di chi vorrebbe distruggere un pianeta intero. Però Yudhisthira, che era pur sempre il fratello maggiore, non si muoveva ancora nè diceva niente.
Intanto Draupadi, a quel nuovo messaggio, disse:
"Non posso presentarmi davanti agli altri. Oggi è cominciato il mio ciclo mestruale e di conseguenza indosso un solo lembo di stoffa per coprire il mio corpo. Presentarmi così davanti ai brahmana e agli anziani non è rispettabile. Torna ancora da mio marito e chiedigli cosa devo fare."
Pratikami, palesemente nervoso, si recò un'altra volta nella sala dov'erano riuniti gli uomini e ripetè le parole della regina. A quel punto Yudhisthira alzò il capo:
"Dille così: le vie del dharma sono spesso estremamente diramate e di difficile comprensione. Io non so se ho agito bene in questo frangente, ma ho sempre cercato di comportarmi secondo i dettami delle leggi divine che ci sono state tramandate. Posso aver fatto bene, o forse ho sbagliato tutto; non lo so. Ma qui ci sono tanti saggi e monarchi dalla vasta conoscenza, che hanno sicuramente compreso queste leggi meglio di me. Vieni tu stessa qui, e domanda a loro cosa sia giusto fare."
A quelle parole gli altri Pandava divennero ancora più furibondi e cominciarono a muoversi febbrilmente sui loro seggi brandendo le armi in aria con forsennata energia. A quel punto Pratikami, spaventatissimo, si rifiutò di tornare ancora da Draupadi.
Così Duryodhana, ridendo forte, si rivolse al fratello.
"Dusshasana, fratello mio, il nostro Pratikami ha paura. Vai tu dalla nostra schiava e conducila qui da noi. Mostra come nessuno deve temere nulla dai nostri nemici."
Intossicato dall'atmosfera ebbra del gioco d'azzardo, sghignazzando, il Kurava irruppe con foga nella stanza della regina e le gridò:
"Sei stata vinta da Duryodhana, e ora sei al suo servizio. Non tardare ancora ad obbedirgli. Egli vuole che tu lavori alla sua corte, ma se ciò non ti aggrada puoi evitarlo accettandolo come marito. In tal modo potrai re a vivere da regina."
A quelle parole ingiuriose Draupadi si alzò di scatto e lo guardò con occhi collerici, poi, rendendosi conto dell'evidente intenzione di Dusshasana di afferrarla, cercò di fuggire nelle stanze di Gandhari per trovare protezione. Ma prima che potesse arrivarci Dusshasana la raggiunse, la gettò in terra e, afferratala per i capelli, la trascinò con sè.
La figlia di Drupada, nata direttamente dal fuoco del sacrificio, con i capelli santificati durante il rajasuya, era trascinata al pavimento come una vile serva: un insulto così grave a una regina non era mai stato perpetrato. Succube della rabbia e dell'intossicazione della vincita al gioco, Dusshasana non riflettava, neanche sospettava che in realtà in quel momento non aveva afferrato i capelli di una donna, ma un serpente di fuoco che lo avrebbe distrutto.
Così l'infame si presentò nella sala, trascinando la piangente Draupadi per i capelli. A quella scena empia tutti costernati si alzarono in piedi, gridando improperi e condanne al secondogenito di Dritarashtra.
Draupadi tremava per la paura e piangeva. I Pandava fremevano come se fossero stati scossi da una tremenda corrente.
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Insulto dopo insulto
"Mi rivolgo agli anziani della rispettabile corte Kurava," disse lei fra i singhiozzi, "e a tutti gli uomini retti che sono presenti qui. Non avete forse visto cosa mi ha fatto questo vile mascalzone? E se avete visto, come potete tacere e non intervenire in mia difesa? O forse la rettitudine non conta più nulla per voi? Questo gioco di dadi è stato un tranello, un inganno progettato dalla vergogna della razza Kurava: Duryodhana. Costui per tutta la sua vita non ha fatto altro che odiare i miei mariti, i quali in questo momento non possono intervenire come vorrebbero per difendermi. Ma guardate in viso il possente Bhima: credete che qualcuno possa mantenersi in vita davanti a lui sul campo di battaglia? E Arjuna, guardatelo: chi di voi sa usare le armi come lui? E Nakula? E Sahadeva? Non conoscete i nostri alleati, che sono gli invincibili Vrishni, e i Panchala con mio padre e mio fratello alla loro testa? Non sfidate ancora la buona sorte. Fate giustizia, e liberatemi da questa tremenda ansietà."
Ma Bhishma e Drona e Vidura e tutti gli uomini giusti non poterono dire niente. Sembrava che nessuno fosse in grado di aiutarla.
A quel punto si udì un ruggito terribile che scosse i cuori di tutti gli uomini: era Bhima, incapace di contenere la sua rabbia.
"Fratello, e anche tutti voi presenti, osservate queste mie braccia e questa mia mazza; quanto pensate che impiegherei per impartire la giusta punizione al vile Duryodhana? E se qualcuno si opponesse, quanto pensate che ci metterei per sterminare i suoi amici e parenti, Dusshasana e i suoi fratelli, e il baro Shakuni, e Karna che tanto si vanta della sua bravura militare? Se tu, fratello, dicessi solo una parola, io massacrerei immediatamente tutti coloro che si sono prestati a questo vile inganno e all'oltraggio di nostra moglie; ma tu taci, non proferisci parola, neanche quando vedi Draupadi trascinata sul pavimento al pari di una villana, come se avesse dei mariti incapaci di proteggerla. Come puoi tollerare tutto ciò? Sei stato tu, a causa del tuo attaccamento al gioco a metterci in questa situazione e se non puoi risolverla, almeno permetti che lo faccia io. Tu sai che con Arjuna e i due gemelli posso sconfiggere gli stessi dei. Non cedere a quella letargia che sembra averti colto."
"Fratello, ascolta," intervenne allora Arjuna. "Non devi parlare in questo modo. Nella gloriosa storia del nostro casato ci sono molti esempi di re santi che hanno preferito abbandonare anche per sempre le ricchezze e gli onori pur di non cedere sui principi fondamentali che regolano le nostre vite. Uno di questi è il rispetto incondizionato verso i superiori: i nostri padri, i nostri maestri e anche il nostro fratello maggiore. In questo momento a noi può sembrare che Yudhisthira abbia sbagliato a giocare, ma poichè ignoriamo cosa il destino abbia in serbo per noi, non possiamo sapere se ciò che ci è successo si rivelerà un bene o un male.
"E non dimenticare che noi siamo servitori di Dio, nessuno è completamente indipendente nel costruire il proprio destino. Dunque dobbiamo accettare sempre ciò che ci accade con serenità.
"Ma è anche vero," continuò Arjuna, "che questi empi dal cuore più duro di una pietra hanno peccato gravemente, e che uno dei doveri dello kshatriya è quello di punire severamente coloro che disobbediscono alle leggi divine. Devi solo attendere, fratello mio, e sii sicuro che presto Duryodhana e i suoi accoliti raccoglieranno ciò che hanno seminato. Non rispondiamo all'empietà con altri peccati. Attendiamo che giunga il momento opportuno per ristabilire la giustizia, e allora avremo ottenuto anche la nostra vendetta."
Terminato che fu il discorso del savio figlio di Indra, il pubblico si levò, pronunziando accorate parole di condanna contro Duryodhana. Persino uno dei suoi fratelli, il giusto Vikarna, cercò di difendere Draupadi, affermando che essendo lei la moglie di tutti e cinque i Pandava, Yudhisthira non avrebbe potuto giocarla senza il consenso degli altri. Nel tumulto si distinse ad un tratto la voce di Karna che gridava contro Vikarna e lanciava tremende offese nei confronti di Draupadi.
Intanto tutti parlavano o disputavano fra di loro, cercando di stabilire cosa fosse giusto e sbagliato. A un certo punto, al culmine della follia, Dusshasana afferrò il sari di Draupadi e cominciò a tirarlo, tentando di spogliarla davanti a tutti. A quella vista i rishi presenti si coprirono gli occhi, gli anziani inorridirono, gridandogli di non farlo. Ma il vile non si fermò. Mai in un discendente di stirpe aryana s'era vista tanta malvagità.
Draupadi piangeva disperatamente e si teneva la veste con tutt'e due le mani. Guardava uno dopo l'altro i mariti cercando aiuto, pur sapendo che non potevano fare niente per lei.
In quel momento pensò che il solo che potesse aiutarla era l'incarnazione del Signore Supremo, Shri Krishna; quando la povera anima spirituale in questo mondo soffre ed è in pericolo, e finalmente comprende che nulla e nessuno può proteggerla, si rivolge alla Suprema Personalità di Dio, che può metterla al riparo da ogni minaccia. E la devota Draupadi, mentre Dusshasana tirava vigorosamente la sua veste, rinunciò a proteggersi con le proprie forze.
Così, abbandonata la presa, a voce alta pregò:
" O Govinda, Tu che risiedi a Dvaraka, o Krishna, Tu che prediligi i pascoli di Vrindavana, o Keshava, non vedi come i Kurava mi stanno umiliando? O Signore, o Marito di Lakshmi, o Signore di Vraja, Tu distruggi tutte le afflizioni, o Janardana, sto annegando nell'oceano dei Kurava. O Krishna, o Krishna, Tu sei il più grande fra gli yogi. Tu sei l'anima dell'universo. O Creatore di tutte le cose, o Govinda, salvami, io sto soffrendo, sto perdendo i sensi nel mezzo dei Kurava."
Afflitta e piangente, Draupadi pregò il Signore con profondo amore spirituale e Krishna, avendo udito quell'invocazione, intervenne a favore della sua devota. E più Dusshasana tirava più il sari, come per miracolo, si allungava. In un attimo decine e decine di metri di stoffa scaturiti dal corpo della regina ricoprirono il pavimento, e tutti gridarono al miracolo, proferendo lodi al Signore.
Visti inutili i suoi sforzi, il Kurava si sedette, stremato dalla fatica.
A quel punto Bhima gridò con furia:
"Ascoltatemi tutti: se non ucciderò quel malvagio peccatore di Dusshasana, che io non possa mai vedere i pianeti celesti, meritati grazie alla pratica delle leggi kshatriya. Io giuro che strapperò il cuore dal suo petto e che berrò il suo sangue."
Dusshasana, che aveva oramai la ragione completamente ottenebrata, lo derise. E ancora proruppe un coro di voci discordanti.
"Portate Draupadi nelle stanze delle regine perché possa conoscere i suoi futuri doveri di serva," gridò Karna.
Si udì ancora la voce di Vidura che cercava invano di difenderla, ma quella di Duryodhana la sovrastò.
"Ora che i tuoi mariti sono degli schiavi, scegli uno di noi e vivi ancora da regina."
"Se non fosse stato per il rispetto che porto a mio fratello," urlò Bhima, "tu non saresti più vivo da tanto tempo. Se non avessi le mani legate dalle leggi del dharma, pensi forse che tu e il tuo maledetto fratello Dusshasana sareste ancora vivi?"
Bhima, con la possente mazza in mano che Mayadanava gli aveva regalato, aveva il petto che gli si gonfiava e sgonfiava a dismisura, e incuteva terrore solo a guardarlo. Tuttavia Duryodhana, per nulla intimorito dalla minacce di quest'ultimo, in tono scherzoso chiese a Yudhistira:
"Tu hai giocato e perso. Dicci, dunque: è corretto che noi consideriamo Draupadi di nostra proprietà?"
Il figlio di Dharma non rispose. Allora il Kurava mostrò la coscia a Draupadi e le rise in faccia. A quell'ennesimo insulto, Bhima alzò la mazza verso di lui e con voce solenne gridò:
"Che io non possa mai vedere i pianeti celesti se non romperò con questa mazza quella coscia che hai mostrato a Draupadi. Se non riuscirò a farlo che io sia condannato a dimorare per l'eternità nel più basso degli inferi."
"Io vi dico che ucciderò Duryodhana," gridò poi, "e quando costui giacerà nella polvere alla mia mercè, spingerò con disprezzo il piede sulla sua testa. Inoltre siate certi che Arjuna ucciderà Karna e mio fratello Sahadeva eliminerà lo sleale Shakuni."
A quel punto, avendo perduto ogni calma, gli altri Pandava si alzarono e proferirono i loro voti. Arjuna affermò che avrebbe ucciso Karna, Sahadeva che avrebbe tolto la vita a Shakuni e Nakula che avrebbe soppresso Uluka, il figlio più caro di Shakuni. In quel frangente Arjuna incuteva ancora più terrore del terribile Bhima e i presenti furono presi da un tremore incontrollabile. Scagliate come macigni, quelle parole furibonde suonarono come sicure condanne a morte.
Poi tutti uscirono dal sabha maledetto di Jayanta.
Ora il re cieco non era affatto tranquillo; anzi si sentiva preso da brividi irrefrenabili di paura non appena gli si presentava davanti agli occhi la scena di poc'anzi. E quando nel pomeriggio terribili presagi evidentemente sfavorevoli apparvero nella reggia dei Kurava, e Gautama e Vidura e Bhishma e Drona lo misero in guardia del tremendo pericolo che tutti loro stavano correndo, Dritarashtra, terrorizzato, realizzò la gravità della situazione e restituì tutto ai nipoti.
La sera stessa i Pandava, per nulla chetati dal gesto dello zio, ripartirono per Khandava-prastha.
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Si gioca ancora
La loro partenza non passò inosservata; Dusshasana, vedendoli partire in libertà, capì che il padre aveva avuto paura e aveva dato ascolto ai consigli di Bhishma e degli altri. Immediatamente corse dal fratello e gli raccontò quello che era accaduto.
"Oramai non si tratta più di un gioco," disse Duryodhana, spaventato, "i Pandava hanno giurato di ucciderci tutti e non avranno pace finchè non l'avranno fatto. Oramai ci conviene sin da ora giocare le nostre carte apertamente contro di loro, o avranno tutto il tempo di organizzarsi. Dobbiamo convincere nostro padre a richiamarli e a giocare ancora. Sono sicuro che vinceremo di nuovo e allora li costringeremo ad andare in esilio."
Non fu affatto facile convincere Dritarashtra ad agire in quel modo, ma anch'egli convenne che i nipoti liberi in quel momento costituivano una minaccia sicura ed così costui, con l'intelligenza confusa dalle trame del destino, non poté rifiutare.
E si giocò ancora.
Sconfitti, i Pandava avevano perduto il loro regno ed erano stati condannati a trascorrere dodici anni nella foresta e un anno in incognito. Senza dire una parola, Yudhisthira era uscito dal sabha.
Il giorno stesso, accompagnati dalla loro moglie, i Pandava si prepararono per la partenza.
A quel punto i Kurava erano di nuovo padroni di tutto il regno e di vaste ricchezze, ma da quel giorno Dritarashtra, spaventato dal pensiero della vendetta dei Pandava, non ebbe più un solo istante di pace.