26
I fratelli rakshasa
Ma ritorniamo ai Pandava.
La fuga dei cinque fratelli era tanto affannosa che Kunti non riusciva a tenere il passo. Bhima allora prese la madre sulle spalle di modo che poterono ricominciare a correre con maggiore velocità. Percorsero molta strada, quella notte, in quella fitta foresta popolata solo da animali della giungla e da rakshasa.
Qualche ora dopo, quando ritennero di essere oramai lontani da Varanavata, si fermarono per riposare.
"Adesso siamo al sicuro," disse Bhima, "è inutile continuare a correre nella notte. E poi nostra madre è stanca e ha bisogno di dormire. E anche voi dovete riprendere fiato. Vi preparerò dei giacigli cosicché potrete dormire comodamente. Io che non sono stanco farò la guardia."
Questi, da quando era iniziata quell'avventura, era sempre stato stranamente tranquillo e non aveva commentato granché gli sviluppi della loro situazione. Anche in quegli ultimi giorni aveva parlato poco e i fratelli lo avevano colto spesso soprappensiero. Ma in quel momento alla vista della madre che si apprestava a dormire all'aperto in una foresta selvaggia, riparata solo da un albero, non riuscì più a contenere la rabbia.
"Ma come potete essere così calmi? Come riuscite a tollerare una situazione del genere? Non vedete come siamo ridotti? Nostra madre, che merita tutti gli onori, è costretta a correre nella foresta di notte per fuggire da un nemico, come se non avesse nessuno in grado di proteggerla. Noi stessi dobbiamo dormire in terra su un giaciglio di erba alla stregua di mendicanti. Ma perché stiamo fuggendo come se avessimo di fronte un nemico che non siamo in grado di battere? Basterebbe poco per risolvere una volta per tutte il problema causato dall'empio figlio di Dritarashtra: prendiamo le nostre armi e corriamo ad Hastinapura; affrontiamo Duryodhana e i suoi degni compagni faccia a faccia e facciamola finita con loro. Anzi, se voi non volete farlo, farò tutto io da solo. Con la sola forza delle mie braccia distruggerò i nostri maledetti cugini e tutti i loro alleati."
"Non dire queste cose, Bhima," rispose Yudhisthira. "Non possiamo rispondere al malvagio con la malvagità. Dobbiamo cercare di fare qualsiasi cosa per evitare lo scontro armato. Pensaci bene cosa significherebbe una guerra: i nostri parenti, i nostri amici, i nostri conoscenti, tutti verrebbero coinvolti e noi contro di loro non possiamo combattere. Non possiamo uccidere i nostri padri, zii, cugini, nonni, maestri, amici. Sii paziente. La guerra deve essere la soluzione estrema: quando veramente avremo realizzato che non esiste altra via d'uscita, allora combatteremo contro di loro. Solo quando vedremo che non ci resta altro da fare. Solo in quel caso non avremo trasgredito alle leggi divine."
Arjuna, Nakula e Sahadeva si ritrovarono d'accordo con il fratello maggiore. Bhima insistette ancora, valendosi di altri numerosi argomenti, tutti avvalorati da evidenze scritturali, ma non riuscì a convincerli. I suoi fratelli avrebbero fatto ogni cosa pur di evitare una sanguinosa guerra.
Si addormentarono.
Solo Bhima rimase sveglio, seduto su di un masso. Mentre guardava la madre e i fratelli dormire distesi sul terreno, una furia incontrollabile gli bruciava il cuore, così violenta che si mordeva continuamente le labbra al punto da farle sanguinare. Avrebbe dato chissà cosa pur di afferrare la sua mazza e correre ad Hastinapura a massacrare i nemici, ma non poteva disobbedire a Yudhisthira, che era il fratello maggiore e che rispettava e amava sopra ogni altra cosa. Tuttavia quello che aveva imposto al suo corpo non era riuscito a farlo anche al cuore, sempre convinto di volere solo una cosa: la distruzione di tutti i figli di Dritarashtra. E nella sua mente non potevano esserci altro che pensieri di vendetta.
Era notte fonda.
Non lontano dal loro accampamento, vivevano un rakshasa di nome Hidimba e la sorella Hidimbi. Da anni i due spargevano morte e dolore e gli abitanti di quella regione tremavano solo a sentirne parlare. E accadde che, nonostante la lontananza, Hidimba sentì la loro presenza.
"Sento odore di carne umana," disse alla sorella, "ci devono essere degli uomini non lontano da noi. Saranno degli stranieri. Non sanno che questa è la mia foresta? Che folli sono stati ad avventurarsi in un posto come questo senza conoscerlo. Sorella, vai lì subito. Ho fame: dunque uccidili e portami le loro carni."
Prontamente Hidimbi obbedì e corse nella direzione che il fratello le aveva indicato, finché, giunta sul posto, vide cinque figure che dormivano e una che montava la guardia seduta su di un masso: era un uomo, dallo sguardo furibondo, che stringeva i pugni per la rabbia e mormorava terribile minacce. Osservandolo meglio, notò il portamento nobile, il corpo possente e i lineamenti magnifici. In quel momento le frecce di Kamadeva colpirono il cuore della rakshasi che abbandonò qualsiasi pensiero omicida.
"Come si può ammazzare un uomo così bello e nobile?" pensò. "Non riuscirò mai a farlo. Mi piace, mi ha stregato il cuore, e non riesco neanche a pensare di doverlo eliminare. Al contrario, userò le mie arti per convincerlo ad accettarmi come moglie e ad amarmi."
Rapita dall'amore per Bhima dimenticò il demoniaco fratello che intanto diventava sempre più impaziente di gustarsi il prelibato pranzetto procuratogli da Hidimbi. Così, quando dopo i primi at-timi di sbandamento costei si ricordò della sua missione, le crollò il mondo addosso.
"Se non gli obbedisco, mio fratello è capace di ucciderci tutti."
Per un po’ fu torturata dall'incertezza, poi il forte sentimento d'amore che aveva inesorabilmente stregato il suo cuore prevalse sulla paura, per cui assunte le fattezze di una avvenente ragazza, uscì dal nascondiglio e andò incontro a Bhima. Quando questi la vide sospettò subito che la fanciulla nascondeva qualcosa di strano.
"Chi sei?" le chiese. "Cosa fa una ragazza giovane come te in una foresta infestata da animali feroci e da rakshasa? Sei tu stessa un rakshasa? Si sa che questi esseri demoniaci possono prendere qualsiasi fattezza, anche quelle di una donna giovane e carina."
Lei non tentò neanche di mentire; sapeva che aveva poco tempo per salvarli dal crudele fratello.
"Io sono Hidimbi, la sorella del rakshasa Hidimba. Mio fratello ha sentito la vostra presenza e mi ha mandata qui per uccidervi, così da potersi sfamare. Ma io, dopo averti visto, non me la sono sentita. Voi correte un pericolo mortale. Vi prego fuggite immediatamente. E' già parecchio tempo che sono partita, perciò fra poco mio fratello comincerà ad insospettirsi del ritardo e verrà di persona."
Bhima capì il sentimento che spingeva la rakshasi a metterli in guardia, ma non provò alcuna apprensione.
"Se tuo fratello vuole venire a combattere, che venga pure," rispose scrollando le spalle. "E se vuole cibarsi dei nostri corpi, se li guadagni. Mia madre e i miei fratelli hanno camminato per tutta la notte e sono stanchi; di certo non li sveglierò per un rakshasa."
"Mio fratello ha la forza di centinaia di elefanti," rispose la ragazza alquanto sorpresa da quelle parole, "e nessuno mai è riuscito a vincerlo in duello. Ti prego, tu non sai ciò che dici: fuggite senza perdere altro tempo."
Bhima non restò per nulla impressionato dalla descrizione della forza del rakshasa e continuò a dirle che non aveva alcuna intenzione di disturbare i suoi familiari.
Nel frattempo l'affamato Hidimba cominciava a chiedersi la ragione di tanto ritardo e a scalpitare per l'impazienza; dopo un po’ pensò che fosse meglio andare a vedere di persona cosa stava succedendo. Ci si può immaginare la rabbia e lo stupore del demone quando, giunto sul posto, trovò la sorella che parlava allo sconosciuto, e si avvicinò per sentire ciò che diceva. Quando la sentì metterlo in guardia del pericolo che correvano, un violento colpo d'ira gli offuscò la vista e gridò con furia inaudita:
"Vi ucciderò tutti!"
E si lanciò contro di loro. Vedendo il rakshasa sopraggiungere minaccioso, Bhima si alzò di scatto e gli corse incontro. La collisione dei due corpi fu così violenta che produsse un rumore forte come un tuono. La lotta diventò subito furibonda: una nuvola di polvere circondava i due avversari che si battevano con ogni arma che trovavano a disposizione, alberi e rocce compresi. Il clamore di quella battaglia svegliò i fratelli e la madre che si resero subito conto della situazione. Arjuna voleva intervenire, ma i due corpi erano così vicini l'uno all'altro e si muovevano con tale rapidità che sarebbe stato facile sbagliare bersaglio, per cui decise di lasciar fare a Bhima.
Fu solo dopo diverse ore che il terribile duello si risolse a favore del Pandava. Afferrato il rakshasa in una stretta ferrea, facendo leva sul suo possente ginocchio gli spinse un braccio sul collo e l'altro sulle gambe, spezzandogli la spina dorsale. Hidimba lanciò un grido spaventoso e perì. Era l'alba, il sorgere del sole segnò la fine del combattimento.
Poiché oramai la notte era trascorsa, i Pandava si prepararono a lasciare quel posto e misero insieme le cose che avevano portato con loro. La rakshasi Hidimbi era ancora lì, che guardava Bhima senza dire una parola. E anche quando si furono avviati, lei li seguì, senza parlare. Kunti, che aveva compreso il sentimento della donna, disse al figlio:
"Bhima, quella ragazza ti vuole per marito. E' stata lei ad aiutarci, andando contro il volere del fratello. Ora non ha nessuno che può proteggerla e credo proprio che tu debba accettarla e contraccambiare i suoi sentimenti."
"Ma Yudhisthira non è ancora sposato," ribatté Bhima, "e non è corretto che io lo faccia prima di lui senza il suo consenso. Chiedi dunque al mio fratello maggiore, e se lui non avrà nulla da obiettare, io sposerò questa rakshasi."
Yudhisthira diede il suo consenso, e il giorno stesso i due si sposarono e andarono a vivere da soli per un certo periodo.
Dalla loro unione nacque un figlio, Ghatotkacha, che in poco tempo divenne forte come il padre. Dopodiché Bhima salutò la moglie e il figlio e si riunì ai familiari, che ripresero il viaggio.
27
Ad Ekachakra
A quel punto bisognava scegliere il luogo adatto dove nascondersi. Infatti il periodo tranquillo che aveva seguito l'unione di Bhima con Hidimbi non aveva certo cancellato il grave problema che avvelenava la loro esistenza, e cioè la persecuzione del cugino Duryodhana.
Durante il loro cammino in quella foresta intricata incontrarono Vyasa, il quale consigliò loro di recarsi a Ekachakra, un piccolo paese situato a oriente, abitato da gente pia e religiosa, dove avrebbero potuto visitare numerosi luoghi santi. Seguendo, come sempre, i consigli benefici del saggio, il piccolo gruppo si diresse verso Ekachakra.
Quando furono in vista del paese, Arjuna si preoccupò di come si sarebbero dovuti presentare e di cosa avrebbero dovuto fare.
"Ora dovremo travestirci," disse. "Non possiamo farci riconoscere, altrimenti Duryodhana manderebbe subito il suo esercito ad eliminarci. E' meglio non affrontarlo ancora così apertamente."
"Ci travestiremo da brahmana poveri," concluse Yudhisthira, "e cercheremo ospitalità presso qualcuno che possa offrircela. Per quanto riguarda il nostro mantenimento, chiederemo l'elemosina come fanno tutti coloro che appartengono a quest'ordine."
Così travestiti, i Pandava e la madre entrarono nel paese e cercarono una dimora dove soggiornare; non tardarono a trovarla presso una famiglia di brahmana semplici e pii, che misero a loro disposizione alcune stanze.
Trascorsero giorni tranquilli.
A parte Bhima che aveva il problema della quantità di cibo sempre troppo scarsa per lui, i Pandava erano contenti e impiegavano il tempo in modo proficuo studiando i testi sacri e andando in questua solo per quel tanto che bastava per la loro sopravvivenza. Ma anche quel periodo di serenità fu ad un certo punto scosso da un dramma che li avrebbe coinvolti.
Accadde che un giorno Kunti udì involontariamente dei lamenti accorati provenienti dalle stanze della famiglia che li ospitava: erano dei pianti così convulsi e disperati che si preoccupò molto e volle conoscerne le cause.
"Cos'è successo di tanto grave? Perché piangete così? Ditemene le ragioni," chiese gentilmente.
"E' possibile che non sappiate quale calamità ci sta facendo soffrire? Sono tanti anni che la nostra esistenza è un inferno, e vivere in questa regione è oramai diventato impossibile. Ciò che sta accadendo è terribile," rispose il brahmana che stringeva a sé la moglie e i due figli.
A fatica Kunti riuscì a farsi raccontare ciò che rendeva tanto dolorosa la vita dei nuovi amici.
"Tempo fa un forte rakshasa di nome Baka arrivò a Ekachakra e subito cominciò delle scorribande terribili: entrava nei paesi e ne massacrava gli abitanti, rubando e portando via qualsiasi cosa volesse. Il nostro re tentò di intervenire, ma avendo capito che questi era troppo forte per lui, non tentò neanche di combattere e come un codardo fuggì lontano. A quel punto la situazione era diventata insostenibile: non si sapeva come porre fine alle stragi e alle razzie, quando gli anziani del paese riuscirono a trattare con quel demonio. Alla fine costui ha accettato di cessare le sue azioni nefande, a patto però che ogni settimana una famiglia gli mandi alla caverna in cui vive uno di loro alla guida di un carro colmo di cibo, trainato da otto muli. Come potete immaginare, il rakshasa mangia tutto, compreso il conducente. Questa settimana tocca alla mia famiglia sacrificare qualcuno, e uno di noi dovrà morire."
Tanto dolore colpì Kunti che pensò di sdebitarsi con il brahmana per l'ospitalità ricevuta.
"Per favore, non piangete più," disse loro Kunti, "non preoccupatevi più per il rakshasa. Io risolverò il problema che assilla il vostro paese. Mio figlio andrà al vostro posto, e condurrà il carro fino alla caverna di Baka; poi porrà fine a quell'esistenza malvagia."
Il brahmana era esterrefatto; da una parte avrebbe voluto aggrapparsi a quello che sembrava uno spiraglio di salvezza per sé e per la sua famiglia, ma dall'altra non intendeva mettere a repentaglio la vita del giovane, che pensava fosse un ragazzo comune. Così disse:
"E' un suicidio, non posso accettare la tua proposta."
"Mio figlio non corre alcun pericolo," rispose Kunti. "Tu non sai della sua grande forza, che non conosce rivali. Non temere, non ci sono rischi per lui; al contrario è il rakshasa a dover avere paura."
Il brahmana, convinto da quelle argomentazioni, accettò.
La sera stessa la madre raccontò ogni cosa a Bhima.
"Figlio," concluse Kunti, "abbiamo un dovere di riconoscenza verso queste persone che ci hanno offerto asilo per così tanto tempo e anche nei confronti della virtuosa gente di questo paese. Voi che siete kshatriya, guerrieri, avete il dovere di difendere la gente debole e di uccidere tutti coloro che disturbano la pace e la religione. Dunque io credo che dovresti andare dal rakshasa e distruggerlo. Inoltre, tu sei sempre affamato e il cibo che otteniamo mendicando è sempre così scarso: andando da Baka con il carro potresti sfamarti con ciò che è destinato a lui."
Bhima non si tirò indietro, anzi accettò quel compito con esultanza. Era felice di avere in tal modo l'opportunità di fare qualcosa per quella famiglia che era sempre stata tanto gentile con loro, e allo stesso tempo si sentiva anche risollevato alla prospettiva di potersi finalmente sfamare in modo soddisfacente.
Partì il giorno stesso.
Ci volle qualche ora di viaggio per giungere sul posto dove si trovava la caverna di Baka. In un primo momento pensò di causare qualche rumore per richiamare il rakshasa, ma subito ci ripensò.
"Se uccido ora il rakshasa poi dovrò digiunare interi giorni per purificarmi dal contatto con quell'essere immondo. In questo periodo ho mangiato troppo poco per attendere altro tempo, per cui è meglio che prima mangio e poi lo affronto."
Il potente Pandava cominciò a mangiare voracemente l'ottimo cibo, provocando con le mandibole forti rumori. Il rakshasa udì lo strano suono che proveniva dall'esterno e uscì per vedere cosa stesse accadendo. Ciò che gli si prospettò alla vista lo lasciò per un attimo impietrito dalla sorpresa: la vittima, invece di gridare e chiedere pietà come avevano sempre fatto le altre, per nulla preoccupata del pericolo, stava mangiando tutto il suo cibo.
Superata la sorpresa, Baka tuonò contro Bhima e non ottenendo risposta gli si scagliò contro con furia inaudita; ma questi non si scompose e continuò a mangiare finché non ebbe terminato. Poi si alzò e si scatenò. Al termine della furibonda lotta, il rakshasa giaceva a terra privo di vita.
Bhima, allora, trascinò il gigantesco corpo fino alle porte del paese e lo lasciò lì, in modo che tutti potessero vederlo. Poi, prima che qualcuno potesse scorgerlo e sospettare chi in realtà fosse, fuggì. Certamente quella non poteva essere stata un'impresa fatta da un povero brahmana.
Ci fu una grande festa per la morte di Baka e per la fine di quell'incubo.
Grazie a Bhima, ora si poteva vivere serenamente.
28
La notizia del torneo
Dopo quegli avvenimenti i Pandava rimasero graditi ospiti nella casa del brahmana.
Erano passati alcuni mesi, quando un giorno un pellegrino che si trovava di passaggio nel paese, rimase a pranzo presso di loro: in quella occasione gli fu chiesto cosa stesse accadendo di importante in giro. Questi non si fece pregare e cominciò a raccontare di un importante svayamvara che stava per avere luogo nella capitale del regno di Panchala.
"Non so se siete a conoscenza della storia del re Drupada," disse, ignaro della vera identità dei suoi interlocutori, "e dell'odio che nutre per Drona. Dopo essere stato duramente umiliato, egli ha vagato nelle foreste per molti anni, rivolgendosi a numerosi asceti; voleva dedicarsi alle pratiche dello yoga e della rinunzia per acquisire il potere di compiere grandi sacrifici. Sapeva bene che il solo valore militare non avrebbe mai potuto fargli ottenere la vendetta su Drona il quale, grazie a Parashurama, è diventato praticamente invincibile. Drupada voleva guadagnarsi il potere brahmanico, che sgorga dalle pratiche della rinuncia. Dopo tanto tempo e innumerevoli austerità, Drupada è riuscito a celebrare un sacrificio del fuoco in collaborazione con dei monaci molto potenti, e grazie a loro ha avuto due figli, un maschio e una femmina, nati direttamente dal fuoco del sacrificio: Drishtadyumna e la seconda, la meravigliosa Draupadi. Sono personaggi celestiali discesi su questo mondo con una precisa missione: Drishtadyumna con lo scopo di uccidere Drona, e Draupadi con quello di causare indirettamente la morte di milioni di guerrieri. Da allora Drupada ha ritrovato la serenità, perché sa che per la sua vendetta deve soltanto aspettare. Quei due figli hanno sempre arrecato al re grandi soddisfazioni. Ora per Draupadi è arrivato il momento di sposarsi, però il re vuole darla solo a una persona che sia in possesso di qualità realmente straordinarie. Per questo ha indetto uno svayamvara, un torneo, e chi ne riuscirà vittorioso potrà sposare la fanciulla."
Ci fu un momento di silenzio; poi il viandante continuò.
"Ma tutti dicono che esso sia costituito da una prova così difficile che solo Arjuna avrebbe potuto superarla, per cui dopo la sua morte sembra che praticamente nessuno potrà farcela."
L'ospite poi parlò di Draupadi, descrivendola con toni talmente ammirati che i Pandava provarono una così forte attrazione per una simile bellezza che desiderarono andare a vederla.
La sera stessa ne parlarono con Kunti, la quale convenne che la cosa migliore sarebbe stata andare a Kampilya. Dicevano che erano solo curiosi di ammirare Draupadi, ma era chiaro che tutti speravano di averla in moglie.
Fu un viaggio che durò qualche giorno, non privo di avventure e situazioni particolari.
Una notte Arjuna si imbatté nel gandharva Citraratha, con il quale ebbe dapprima un acceso alterco, e poi uno scontro armato. Il valoroso figlio di Pandu ebbe la meglio sull'abitante dei pianeti celesti ma, nonostante il duello, i due diventarono grandi amici. Fu Citraratha, in quell'occasione, che suggerì loro di accettare un maestro spirituale prima di arrivare a Kampilya. In quei paraggi viveva il celebre rishi Dhaumya, e i Pandava furono felici di ottenere l'iniziazione spirituale da quel grande saggio che, a sua volta, decise di seguirli durante i loro spostamenti.
29
Lo svayamvara di Draupadi
Dopo alcuni giorni i Pandava arrivarono a Kampilya, la stupenda capitale del regno di Panchala.
Dopo aver trovato ospitalità nella casa di un vasaio, i cinque fratelli cominciarono a vagare per la città, che trovarono pervasa da un'atmosfera di festività quasi frenetica, con fiumane di persone che arrivavano e le strade erano continuamente percorse, tanto che durante il giorno e la notte non erano vuote un solo istante. Da tutta Bharata-varsha arrivava in continuazione gente di ogni tipo. Rallegrata da festoni e bandiere, con gli ampi viali continuamente cosparsi di acqua di rose, pulita e opulenta come non mai, Kampilya sembrava davvero una città celeste. I Pandava, irriconoscibili nel loro travestimento, ad un certo punto si accostarono a uno dei numerosi gruppetti di persone che confabulavano per la strada per ascoltare quello che dicevano.
"Pensate che il nostro re," sosteneva uno di loro, "ha fatto costruire un arco così pesante che in pochi riuscirebbero persino solo a sollevarlo, e così rigido che pochissimi potrebbero tenderlo. Che dire poi di porvi una freccia e farla partire! Inoltre nel suo anfiteatro appena costruito, è stata appesa a una volta una forma simile a un pesce con una ruota che le gira davanti in continuazione e che ha un solo orifizio dal quale si può individuare il bersaglio. E l'arciere dovrà colpire esattamente l'occhio del pesce. Ma non è tutto qui. Pensate che l'arciere non potrà neanche guardare direttamente in alto, ma dovrà mirare guardando il riflesso in una vasca di acqua mossa."
"E' una prova praticamente impossibile per chiunque," diceva qualcuno.
"Forse Karna ce la potrebbe fare," ribatteva qualche altro.
"Forse, ma potete essere sicuri che Draupadi non accetterebbe mai di sposare un uomo di casta inferiore. Piuttosto si getterebbe nelle fiamme."
"Eh, Arjuna sicuramente ce l'avrebbe fatta, ma purtroppo è caduto vittima delle losche trame del malvagio figlio di Dritarashtra."
"Il vile Duryodhana..."
"Sapete, in segreto il re ha sempre desiderato dare sua figlia ad Arjuna, che ha ammirato quando tempo fa lo ha affrontato sul campo di battaglia..."
Nei giorni che seguirono i Pandava continuarono a visitare la stupenda e ricca capitale, e trascorrevano il tempo mendicando e studiando le scritture.
Poi giunse l'agognato giorno del torneo.
Arjuna si alzò di buon'ora e dopo aver svolto le sue pratiche spirituali mattutine, accompagnato da Bhima, uscì di casa e si diresse verso il gigantesco anfiteatro dove si sarebbe celebrato lo svayamvara. Già gremito di centinaia di migliaia di persone vocianti sugli spalti, questo costituiva una cornice davvero impressionante al torneo. I due fratelli si guardarono attorno e poterono constatare con meraviglia che erano affluiti a Kampilya quasi tutti i re e i principi della terra. Nelle tribune riservate ai monarchi riconobbero i figli di Dritarashtra con a capo Duryodhana, poi Karna, Shalya, e migliaia di altri.
Ma quando Arjuna volse lo sguardo in direzione del settore riservato ai Vrishni, notò una figura stupenda e ornata da ghirlande e gioielli di vario tipo; non lo aveva ancora incontrato, ma Drona gliene aveva parlato così tanto che non poté non riconoscere Krishna e suo fratello Balarama, accompagnati da amici e familiari. Guardò a lungo quel personaggio divino, colui che tutti dicevano fosse un'incarnazione della Suprema Personalità di Dio. Bhima, invece, avendo scorto Duryodhana nel settore riservato ai Kurava, si sentì ribollire di un'ira insostenibile che solo a fatica riuscì a trattenere.
Poi si fece silenzio: fu annunciata la principessa Draupadi che nata dal fuoco sacrificale per volere dei deva entrò, brillante come un sole. Tutti rimasero senza fiato, colpiti e in piena ammirazione per quella bellezza straordinaria; sulla terra mai si era vista una donna così incantevole e aggraziata. Camminando con portamento che rivelava grande modestia, Draupadi si sedette a fianco del padre. E, come tutti gli altri, in cuor suo Arjuna non desiderò altro che di averla come sposa.
Prima Drupada e poi il figlio Drishtadyumna fecero un breve discorso, spiegando le regole della gara; poi fu introdotto l'arco e la ruota che disturbava il passaggio delle frecce fu messa in moto. A turno potenti re, generali di eserciti e celebri guerrieri si susseguirono l'uno dopo l'altro nel tentativo di colpire il bersaglio: Duryodhana e i suoi cento fratelli, Shakuni, Asvatthama, Bhoja, Virata e i suoi figli, Bhagadatta, Shalya, Somadatta, Jayadratha, Jarasandha e centinaia di altri tentarono di colpire il bersaglio, ma tutti fallirono. Furenti e umiliati, tornavano a sedere, guardando con rimpianto la meravigliosa principessa che aveva irrimediabilmente rubato i loro cuori.
Ad un certo punto ogni rumore cessò e uno strano silenzio, quasi di paura, invase gli spalti: alzatosi dal suo seggio d'oro, Karna, con la sua figura alta e imponente, si faceva avanti con incedere regale. Creduto morto Arjuna, tutti pensavano che egli fosse l'unico arciere al mondo capace di colpire il bersaglio.
Il figlio di Surya impugnò l'enorme arco, lo sollevò senza alcuno sforzo apparente e vi fissò una freccia: poi con la stessa facilità tirò la corda verso di sé. Drupada sentì un tuffo al cuore, aveva paura che Karna riuscisse nell'impresa; non voleva che sua figlia andasse in sposa a lui, in quanto, nel suo intimo, sperava che fossero fondate certe voci di strada che circolavano ultimamente, le quali volevano ancora vivi i figli di Pandu. E anche Draupadi avrebbe voluto sposare Arjuna, del quale aveva tanto sentito parlare come di un uomo favoloso e guerriero invincibile.
D'un tratto si udì echeggiare nell'anfiteatro la voce della principessa, forte e decisa.
"Tutti possono provare a colpire il bersaglio," proclamò, "ma in quanto a sposare il vincitore voglio che si sappia che non accetterò mai un marito appartenente alla classe dei suta."
Karna rimase esterrefatto. Ancora quella maledizione che lo perseguitava! Ancora lo chiamavano figlio di auriga! A quelle parole, dette con lo scopo di scoraggiare Karna, un forte mormorio si levò dalle gradinate e lui, umiliato e deconcentrato, scagliò la freccia con precipitazione, mancando il bersaglio solo per pochi millimetri. Allora, furibondo, gettò l'arco in terra e tornò a sedersi, con il viso sconvolto dalla rabbia. Nel vedere fallire l'arciere migliore del mondo, qualcuno dei monarchi presenti cominciò a innervosirsi.
"Drupada, non capiamo cosa tu abbia avuto in mente mettendoci di fronte a una prova impossibile. Hai visto? Persino Karna non ce l'ha fatta, anche se bisogna ammettere che le parole taglienti di tua figlia lo hanno disturbato. Sembra quasi che tu non voglia darla a nessuno. E se ciò è vero, perché ci hai fatto venire qui?"
"Forse tu volevi solo umiliarci e divertirti alle nostre spalle vedendoci fallire," disse un altro con cipiglio furioso.
"Se così è, meriti sicuramente una punizione."
"Pagherai la tua impudenza con la vita," gridarono altri.
Il nervosismo cresceva sempre di più, tanto che il settore riservato ai re si agitava come un mare in tempesta e si udivano proferire parole furibonde. La piega che la situazione aveva preso fece temere il peggio a Drupada. Qualcuno già metteva mano alle armi.
Ma d'un tratto una voce proveniente dal palco riservato ai brahmana si levò così forte che tutti tacquero; era Arjuna, che chiedeva il permesso di parlare.
"Le leggi che osserviamo da millenni non vietano alle classi superiori di provare a cimentarsi anche in dimostrazioni che non sono pertinenti ai propri ruoli," affermò lui. "Dunque chiedo il permesso di provare anch'io a colpire il bersaglio."
Drupada osservò quello strano brahmana: per appartenere a una classe per la quale lo studio delle scritture e la pratica delle austerità e delle penitenze sono le regole fondamentali, si presentava singolarmente robusto e il suo portamento era fiero e nobile: qualità queste che normalmente si riscontrano negli kshatriya. Le parole pronunciate da Arjuna erano giuste: nessuna legge impediva ai brahmana di cimentarsi in prove di destrezza militare.
"Sei libero di provare, se lo desideri," rispose Maharaja Drupada.
Quando Arjuna scese gli scalini, gli kshatriya presenti bisbigliavano tra loro, irritati: come poteva un debole brahmana riuscire dove i guerrieri più possenti del mondo avevano fallito? Ma quando lo videro afferrare con sicurezza e senza nessuno sforzo l'arco e porvi una freccia, i rumori cessarono d'un colpo, tanto che sembrava che tutti stessero trattenendo il respiro. La freccia partì e, saettando nell'aria, andò a colpire in pieno il bersaglio. E non contento, con una velocità impressionante, il figlio di Indra spedì ben altre sette frecce nello stesso punto, dividendo a metà quella scagliata precedentemente. Draupadi era stata vinta.
Dopo un momento di silenzio incredulo, dagli spalti si levarono clamori di stupore e indignazione. Guardandosi attorno, Bhima capì che la situazione si stava scaldando, così si preparò all'azione.
Draupadi, intanto, guardava quel giovane brahmana tanto forte e abile e qualcosa le suggeriva che quello poteva essere Arjuna, e che i suoi sogni potevano essersi avverati. Si alzò, scese nell'arena e gli pose la ghirlanda al collo: era il segno che lo aveva accettato come marito. A quel punto i mormorii si fecero altissimi: quel gesto aveva scatenato il nervosismo fin troppo represso di tutti. Shalya, Somadatta, Jayadratha e mille altri, sentendosi feriti nel loro orgoglio di guerrieri, inveirono violentemente contro il brahmana, e contro Drupada, che gli aveva permesso di tentare. A decine si alzarono dai seggi e, con le armi in pugno, si riversarono nell'arena come un fiume in piena, vogliosi di combattere. Arjuna e Bhima proteggevano il re e, scontrandosi con i monarchi infuriati, ingaggiavano spettacolari duelli contro Duryodhana e Shalya, e Karna e tutti gli altri.
Trascendentale alle passioni del mondo, libero dalla schiavitù del desiderio e della collera, con gli occhi tanto simili ai petali del fiore di loto, Krishna osservava la scena. Sembrava quasi divertito, e sorrideva: sapeva bene chi fossero quei brahmana in realtà.
La situazione degenerò e gli kshatriya presero a combattersi tra di loro, rispolverando vecchi rancori, rendendo generale la confusione. Approfittando del momento in cui sembrava che la conquista di Draupadi fosse diventata una questione secondaria, i due Pandava, presa l'avvenente donna con loro, uscirono precipitosamente dall'arena e si diressero verso la casa dove erano ospiti.
Arrivati sulla soglia di casa, allegri per la vittoria ottenuta, chiamarono la madre e dissero in tono scherzoso:
"Madre, abbiamo portato un dono!"
"Qualsiasi cosa sia," rispose Kunti dall'interno, "il vostro solenne impegno deve essere di dividerlo in cinque."
A quei tempi la veridicità di parola era uno dei principi fondamentali e uno dei valori a cui si dava maggiore importanza; in quel modo si imparava a controllare la lingua. Perciò, sebbene Kunti non fosse a conoscenza del dono che i figli avevano portato, questi ultimi avrebbero dovuto dividere Draupadi tra loro.
I Pandava erano costernati: come potevano fare? Ne discussero a lungo, e l'unica soluzione sembrava quella di sposarla tutti e cinque; ma era giusto? Rispondeva alle leggi della moralità e di Dio? Decisero di fare in quel modo; ma il dubbio rimaneva. Comunque quando Draupadi seppe che i suoi cinque mariti sarebbero stati i Pandava provò una gioia immensa. Il suo desiderio era stato esaudito.
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L'incontro dei Pandava con Krishna
Sicuri che quei valorosi guerrieri non potevano essere altri che i Pandava, Krishna e Balarama li avevano seguiti ed erano arrivati alla casa del vasaio proprio nel momento in cui i fratelli stavano ancora discutendo del problema del loro matrimonio.
I due entrarono e dissero:
"Siamo Krishna e Balarama, vostri cugini..."
I cinque fratelli per un attimo li guardarono smarriti, poi si alzarono e li abbracciarono con grande trasporto.
Si ricorderà che Kunti era la figlia di Sura e aveva un fratello di nome Vasudeva, il padre di Krishna e Balarama. Kunti rispose con gioia agli slanci dei nipoti e chiese loro notizie del padre. Si sedettero e parlarono per tutto il giorno. In special modo tra Krishna e Arjuna nacque subito un'amicizia molto solida.
Ma i due fratelli trascendentali non erano stati i soli a capire che quei due brahmana non potevano essere ciò che sembravano. Infatti anche Drupada e Drishtadyumna decisero di indagare. E non vi sono parole per descrivere la felicità dei due quando scoprirono chi veramente era quel brahmana che aveva centrato il bersaglio e aveva sconfitto Karna in duello! Tuttavia tali sentimenti di esultanza si raggelarono e lasciarono il posto allo stupore e allo sdegno non appena costoro seppero che Draupadi avrebbe sposato tutti e cinque i fratelli. A quei tempi era normale che un uomo prendesse più mogli, ma non lo era altrettanto per una donna unirsi a più mariti; dunque la forte perplessità mostrata da Drupada nell'accettare la cosa era più che giustificata. Per amore della verità bisogna ricordare che nella storia vedica c'erano stati già dei precedenti del genere, ma rari e tutti motivati da specialissime ragioni.
Allo scopo di discutere dell'intricata questione che coinvolgeva numerose problematiche etiche e religiose, il giorno dopo i Pandava si recarono a corte. Tuttavia la situazione si risolse più facilmente del previsto grazie all'arrivo di Vyasa, il quale raccontò episodi della vita precedente dei Pandava e di Draupadi. Alla fine del racconto il monarca di Panchala acconsentì alle insolite nozze, che furono celebrate pochi giorni dopo.
Ora i Pandava erano usciti dalla situazione di pericolo, non avevano più bisogno di nascondersi; avevano validi alleati, come Drupada e i suoi figli, Krishna e tutti i Vrishni. Con amici di questo calibro potevano tranquillamente mirare a riprendersi il regno che spettava loro di diritto.
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L'apparente riconciliazione
La notizia che i figli di Pandu erano vivi e che il brahmana che aveva vinto Draupadi altri non era che Arjuna si diffuse velocemente.
Ad Hastinapura ci furono momenti di autentico panico; Duryodhana, terrorizzato, cominciò subito a fare piani per annientarli, ma questa volta Vidura, Bhishma e Drona non solo lo smascherarono pubblicamente insieme ai suoi amici, ma riuscirono anche a portare solidi argomenti per convincere Dritarashtra a fare la pace con coloro che, in fin dei conti, erano i figli di suo fratello minore che egli aveva tanto amato.
Tuttavia Duryodhana fu molto chiaro nello specificare che fra loro non avrebbe mai potuto esserci un rapporto di fratellanza o di amicizia. Dunque il problema era di accontentare entrambi. Non era facile.
Dritarashtra allora indisse un consiglio generale per tentare di trovare una soluzione alla crisi che sarebbe potuto diventare gravissima. Tutti i personaggi più importanti e rispettati della corte Kurava vi parteciparono ed esposero le loro opinioni.
Duryodhana diede inizio al simposio sostenendo: "I Pandava sono i nostri nemici, lo sono sempre stati. E ora che hanno trovato alleati come i Vrishni e i Panchala si scateneranno contro di noi e tenteranno di distruggerci. Noi dobbiamo capire che costituiscono una continua minaccia, per cui dobbiamo utilizzare tutte le armi a nostra disposizione al fine di renderli più deboli. Io propongo di corrompere i loro alleati e tentare di seminare dissensi fra i Pandava stessi; solo così li avremo in pugno."
Karna disse: "Io sono d'accordo con Duryodhana quando dice che i Pandava sono i nostri nemici giurati e che vanno combattuti; tuttavia non convengo con i metodi che egli suggerisce. Un guerriero veramente valoroso non ha bisogno di corruzione né di seminare dissensi tra i suoi nemici, anche perché noi siamo militarmente più forti. Dunque comportiamoci da valorosi, scendiamo sul campo di battaglia e distruggiamoli. Solo così nei secoli futuri il nostro nome non sarà macchiato dall'infamia."
Bhishma, Vidura e Drona dissero: "Sbagliate quando sostenete che i figli di Pandu sono nostri nemici; essi fanno parte della nostra stessa famiglia. E' vero che essi sanno che più di una volta avete attentato alle loro vite, ma è anche vero che sono molto virtuosi; e se noi cominceremo ad agire secondo giustizia, pur di non versare sangue fraterno sono disposti a dimenticare i torti subiti. Dobbiamo fare pace, e restituire ciò che spetta loro di diritto."
Asvatthama disse: "I Pandava sono tra i miei amici più cari, e quindi non condivido le intenzioni bellicose di Duryodhana e di Karna. Non dimentichiamo la lealtà e la giustizia, i valori sui quali si poggia la nostra vita. Non scendiamo al livello più basso; ricordiamoci dei principi della verità."
E così come Bhishma, Drona, Vidura e Asvatthama, tutti i monarchi e i saggi giusti e virtuosi si pronunciarono contro i vili propositi del malvagio principe. E Duryodhana capì di essere sorretto solo da Karna, da Shakuni e dai suoi fratelli; in realtà neanche questi ultimi erano veramente d'accordo, davano ragione a lui solo perché gli erano affezionati. Duryodhana era isolato.
"Non importa cosa si deciderà qui," disse a voce bassa a Karna. "In caso di guerra tutti saranno costretti a combattere per me, anche se a loro non farà piacere."
Alla fine Dritarashtra convenne: "Avendo ascoltato tutti voi, io credo che la pace con i Pandava sia la migliore e la più giusta delle soluzioni. Vidura stesso andrà a Panchala per parlare ai nostri nipoti e per invitarli qui, ad Hastinapura, per avere un colloquio chiarificatore."
Duryodhana non replicò: aveva realizzato che in quel momento gli sarebbe convenuto maggiormente nascondere le proprie intenzioni bellicose; anche se fosse stato costretto a una tregua, pensò che in tempo di pace avrebbe potuto trovare meglio la maniera di distruggerli senza correre rischi.
Vidura partì il giorno stesso e fu ricevuto da tutti con grande affettuosità e rispetto. Appena arrivato aveva trovato gli eserciti Vrishni e Panchala in stato di allarme, pronti a cominciare una guerra nel giro di pochi giorni. Anche Krishna era lì, con tutti i suoi familiari.
"Ho un messaggio da parte di vostro zio Dritarashtra," disse il saggio Vidura dopo i saluti. Dice: "Sono contento che siete ancora vivi, ma ho saputo che covate desideri di vendetta, tanto che addirittura volete combattere contro di noi. Sono stupito: come possono uomini retti come voi giungere a simili propositi? Venite ad Hastinapura e cerchiamo di risolvere i problemi che sono sorti tra voi e mio figlio Duryodhana."
Quel messaggio irritò i Pandava: lo zio parlava di pace ora, ma non aveva mai fatto niente per impedire al figlio di attentare alle loro vite, né per frenare il suo odio. E ora che avevano ottenuto degli alleati forti parlava di pace, auspicava una soluzione pacifica. Ciò nonostante Yudhisthira non voleva inutili spargimenti di sangue, per cui decise di accettare l'invito.
Pochi giorni dopo i Pandava partivano alla volta di Hastinapu-ra.
Nell'antica città capitale dei Kuru vennero ricevuti con tutti gli onori e con grande affetto. Soprattutto, i Pandava apprezzarono le manifestazioni di simpatia da parte dei cittadini che ancora li amavano incondizionatamente e non avevano mai accettato i sentimenti e le vili strategie di Duryodhana.
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La divisione del regno
Quando però Dritarashtra introdusse con modi paterni il suo discorso di benvenuto, Yudhisthira non poté fare a meno di scorgervi espressioni false. Tuttavia egli rispose senza astio, nascondendo la sua preoccupazione circa le proposte che in seguito lo zio avrebbe avanzato; per lui la cosa più importante era di porre fine a una contesa che oramai durava da troppo tempo, per cui in quel momento avrebbe accettato qualsiasi cosa a patto che lui e suoi fratelli non fossero esclusi dai loro diritti di nascita.
L'orazione di Dritarashtra fu lunga e piena di parole cortesi, finché non si arrivò al punto cruciale della questione: il possesso dei territori.
"Tu, Yudhisthira, sei il più anziano dei figli miei e di Pandu, e dunque ti spetterebbe di diritto l'intero territorio che è sempre stato dei nostri avi. Ma come desiderate governare voi fratelli, anche Duryodhana lo vuole e non sono riuscito a trovare argomenti validi per convincerlo diversamente. D'altra parte lui ha paura che voi vogliate privarlo di questa prospettiva tanto che questo sentimento nel corso degli anni si è tramutato in astio. Io credo sia saggio accontentare tutti dividendo il regno, cosicché da una parte regnerete voi, e dall'altra Duryodhana. Questa è la mia proposta; meditateci sopra e poi ditemi cosa ne pensate."
Accettare tale suggerimento avrebbe significato per Yudhisthira privarsi di parte del suo impero, ma egli fu entusiasta dell'idea. Tutti gli uomini giusti presenti all'assemblea applaudirono.
"Noi accettiamo la tua proposta come se fosse un ordine proveniente dal nostro stesso padre," disse Yudhisthira. "L'unica cosa che desideriamo è di espletare in pace i nostri naturali doveri di regnanti. Se la divisione del regno può assicurare ciò ed evitare un conflitto armato, noi siamo felici di prenderne solo metà."
E Dritarashtra disse:
"Tutto il territorio che si estende a sud-ovest di Hastinapura sarà vostro, mentre tutto il resto rimarrà a Duryodhana."
A queste parole nessuno riuscì a frenare un tremito di rabbia; non era un mistero per nessuno che la regione affidata ai Pandava fosse praticamente un deserto, senza grandi città, né acqua, né vegetazione, mentre la zona destinata a Duryodhana era quella più florida e sviluppata.
Dritarashtra cercava di imbrogliarli, ma stranamente né Yudhisthira né Krishna dissero nulla, e anche gli altri tacquero. Il figlio di Dharma accettò con parole gentili, ringraziando di cuore.
Quel giorno stesso, alla presenza santa di Vyasa, Yudhisthira fu incoronato re, e pochi giorni dopo i Pandava partirono alla volta del loro territorio.
La capitale del regno era Khandava-prastha, una piccola città che nel passato era stata la capitale dei Kuru. Una volta era stata così opulenta e florida che era ancora comune il detto "ricca come Khandava-prastha", sennonché un giorno un rishi le aveva scagliato contro una disastrosa maledizione che l'aveva fatta deperire al punto da ridurla in un piccolo paese circondato da uno sterile deserto. Allo stato attuale, tutt'intorno non si vedeva altro che desolazione; da secoli niente cresceva più in quel luogo maledetto.
Ma i Pandava non si sentirono scoraggiati e si misero al lavoro. Il principe di Dvaraka, Krishna, che aveva gli occhi tanto simili ai petali del fiore di loto, in meditazione chiamò Indra e gli chiese di far cadere grandi piogge allo scopo di rendere fertile il terreno; e in effetti in pochi giorni l'intero territorio di Khandava fu inondato da continue piogge. In onore e ringraziamento al deva, la capitale sarebbe poi stata chiamata Indra-prastha. Poi Krishna chiamò Vishvakarma, al quale chiese di costruire meravigliose città, con stupendi palazzi, fontane e prati. La notizia che a Khandava qualcosa di incredibile stava accadendo cominciò a richiamare tanta gente e persino numerosi deva, tutti desiderosi di contribuire alla realizzazione del fantastico regno dei Pandava.
Non passò molto tempo che dove prima si estendevano aridi territori, ora si poteva ammirare un luogo pieno di verde, di fiumi, laghi e fantastiche città.
Le incredibile notizie che riguardavano il nuovo impero dei Pandava si diffusero velocemente e fiumane di persone, provenienti da ogni parte del mondo, vennero, sicure che nel regno dei virtuosi fratelli avrebbero potuto vivere senza privazioni materiali né spirituali. Presto Khandava-prastha pullulò di cittadini.
Arrivò il giorno dell'inaugurazione.
Vyasa stesso e molti altri saggi dal cuore privo di ogni attaccamento a questo mondo vennero personalmente a dirigere la cerimonia e a recitare auspiciosi mantra vedici.
Quando tutto fu terminato, Krishna e i Vrishni si congedarono e tornarono a Dvaraka. A Indra-prastha molti sapevano chi era Krishna e l'amavano con tutto il loro essere, così al momento della partenza si sentirono come abbandonati. Ma nelle loro menti egli restava sempre presente. Per i Pandava cominciò un nuova vita di serenità, i tempi terribili di Varanavata parevano trascorsi da millenni.
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Arjuna in pellegrinaggio
Trascorsero anni: ormai sembrava che nulla potesse disturbare il divino dominio dei cinque fratelli, che regnavano sui loro sudditi con tale rettitudine e giustizia che mai nessuno trovava niente da lamentarsi neanche per le cose più insignificanti.
Un giorno Narada, il figlio diretto di Brahma, celebre saggio celestiale, giunse in visita a Indra-prastha e chiese a Yudhisthira di poter parlare con tutti i Pandava. Dopo il puja, i sei si appartarono.
"Ciò che voglio dirvi è che questa pace con i vostri cugini è solo apparente. Essi non vi hanno ancora perdonato il fatto di essere superiori a loro in qualsiasi cosa, né lo faranno mai. Duryodhana è colmo di invida e di odio; non riesce a spiegarsi da dove prendiate le capacità di fare le cose più impossibili. Non potrà mai capire che l'origine della vostra forza è la purezza di cuore e la devozione al Signore Supremo che ora è presente in questo mondo. Duryodhana tutto il giorno soffre di una rabbia senza limiti, ancor più ora che avete saputo trasformare Khandava-prastha in un florido regno. Anche se tace e non complotta apertamente contro di voi, non dovete illudervi perché lo farà appena ne avrà l'opportunità. In questi giorni state assaporando un momento di felicità, ma è una cosa temporanea; dovrete ancora sopportare dolori e disagi."
"Ma come possono danneggiarci, ora?" chiese Yudhisthira. "Abbiamo un florido regno, un esercito forte e ben addestrato, degli alleati fedeli. Cosa potrebbero ideare?"
"Loro sanno bene che nel passato non sono riusciti a distruggervi perché siete sempre stati uniti, ed ora che siete diventati più potenti risulterà ancora più difficile. La strategia di Duryodhana sarà questa: cercherà di creare ragioni di dissenso per farvi litigare e rompere questa vostra unione."
"Ma noi in tutta la nostra vita non siamo mai stati l'uno contro l'altro," disse il figlio maggiore di Kunti, "non abbiamo mai litigato. Come sperano di riuscirci loro?"
"Draupadi è l'unica ragione per cui potrebbero sorgere dissensi," rispose Narada, "per quanto grande sia l'amore che nutrono l'uno per l'altro, gli uomini che hanno in comune l'attaccamento per la stessa donna rischiano ad ogni attimo di litigare e distruggersi fra di loro. Ricordate come Sunda e Upasunda si uccisero per il possesso di Tilottama? Perciò prendete precauzioni e non fidatevi ciecamente dell'amore fraterno che vi unisce."
Un consiglio dato da un personaggio come Narada non poteva certo essere minimizzato.
Anche dopo che fu partito, i Pandava continuarono a discutere della cosa per trovare una soluzione. Bisognava evitare che qualcuno di loro, vedendo il fratello in compagnia di Draupadi, diventasse geloso e cominciasse a covare pensieri e sentimenti foschi.
"Una soluzione," concluse Yudhisthira, "potrebbe essere questa: nessuno di noi dovrà più vedere Draupadi in compagnia di un altro. Ogni settimana starà con uno di noi a turno, e se qualcuno trasgredirà questa regola andrà in esilio per dodici anni a visitare i luoghi santi."
A tutti sembrò una buona idea e da quel giorno quella regola fu osservata con rigore. Ma evidentemente le cose non dovevano andare così lisce per i Pandava neanche in quel periodo alquanto sereno.
Un giorno, infatti, mentre Draupadi era con Yudhisthira, un brahmana arrivò alla reggia e chiese di parlare urgentemente ad Arjuna, che lo ricevette immediatamente.
"Sono stato derubato delle mie mucche," si lamentò, "che sono la mia unica ricchezza. Per favore, fai presto, corri a recuperarle e punisci i criminali."
Sollecitato fortemente dal brahmana, Arjuna decise di inseguire all'istante i ladri, ma si ricordò che aveva lasciato le armi nella sala dove Yudhisthira era in compagnia di Draupadi. Il virtuoso Pandava era incerto su quale fosse la cosa giusta da farsi.
"Se non recupero le mucche del brahmana, il re ed io stesso saremo aspramente criticati per non aver assolto ai nostri doveri. Se invece entro nelle stanze di Yudhisthira potrò restituire la refurtiva ma dovrò andare in esilio. Devo farlo, non c'è alcun dubbio che fra i due mali il primo è sicuramente il peggiore."
Riprese le armi, Arjuna inseguì i ladri e recuperò con facilità la refurtiva. Poi tornò a corte.
"Cari fratelli," disse, "ricorderete senz'altro il nostro accordo che era più di un voto. Oggi non sarei dovuto entrare nelle stanze di Yudhisthira, per cui andrò via per dodici anni. Impiegherò bene questo periodo: viaggerò per i luoghi più santi di Bharata-varsha e starò insieme con grandi saggi dai quali imparerò molte cose."
I suoi fratelli erano costernati.
"Ma non hai l'obbligo di partire," disse Yudhisthira. "Tu sei entrato nella sala per prendere le armi. Dovevi proteggere le proprietà del brahmana, che è il primo dovere di uno kshatriya. Non sei entrato per motivi di gelosia o altro."
"Voi sapete bene quanto sia importante per uno kshatriya dire sempre la verità e non mancare mai alla parola data," ribatté Arjuna. "Se ciò accadesse anche una sola volta la sua reputazione sarebbe rovinata e nessuno lo rispetterebbe più. E se il popolo non stima i suoi governanti ogni cosa si degrada e la pace è distrutta. Noi abbiamo promesso: se per affetto familiare non manteniamo il nostro patto la gente dirà che siamo deboli, che siamo troppo attaccati ai piaceri della famiglia e ci criticherà. Non possiamo permetterci un simile rischio. Non preoccupatevi. Questi anni non saranno gettati via, imparerò cose che poi ci potrebbero tornare utili."
E il figlio di Indra partì per quel lungo viaggio.
Sebbene facesse soste solo di rado, ebbe modo di incontrare tante persone e conoscere nuovi usi e costumi.
Pochi mesi dopo la partenza da Indra-prastha, infatti, Arjuna incontrò Ulupi, la figlia del re dei naga, con la quale si sposò ed ebbe un figlio di nome Iravan. E in seguito, dopo che ebbe ri-preso il cammino, dirigendosi verso nord-est, nel versante orientale delle Himalaya entrò nella città di Manalur, dove conobbe Citrangada, la figlia del re Citrasena. I due si innamorarono e si sposarono. Dalla loro unione nacque un bambino che chiamarono Babruvahana. Dopo qualche mese trascorso in compagnia della principessa di Manalur, Arjuna riprese il suo pellegrinaggio.
Da allora erano passati alcuni mesi quando Arjuna arrivò a Dvaraka, la città del suo grande amico Krishna.
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Arjuna e Subhadra
Non vi era giunto per caso. Aveva dei motivi. Quello principale era certamente il forte desiderio di rivedere il suo più caro amico, ma si sentiva anche mosso da un'enorme curiosità: sia ad Indra-prastha che durante il tirtha-yatra, infatti, aveva sentito parlare da molti della sorella minore di Krishna, della quale tutti dicevano essere bellissima e di magnifico carattere. Egli voleva approfittare del suo arrivo a Dvaraka per vederla. Proprio per questo suo desiderio preferì non farsi riconoscere e si travestì da yati.
Così camuffato entrò a Dvaraka, dove passò inosservato. Ma Krishna, che è l'onnisciente Signore Supremo, sapeva dell'arrivo dell'amico e anche della sua intenzione di conoscere Subhadra, per cui andò a trovarlo nella modesta dimora dove aveva preso alloggio. Quando Arjuna lo vide entrare si alzò per abbracciarlo, felice di rivederlo dopo tanto tempo di lontananza.
I due parlarono a lungo, di tante cose, e anche di Subhadra.
"Sì, io sapevo che volevi conoscere mia sorella," disse Krishna, "e credo di non sbagliare se ti dico che anche a lei farebbe piacere. Da parte mia non ho niente in contrario, ma credo che dovremo risolvere un problema serio: Balarama ha già promesso Subhadra al suo discepolo Duryodhana, e ciò non ha fatto piacere né a me né a lei. Non sarà facile convincerlo a ritirare la parola data."
"L'unica cosa da fare," continuò Krishna, "è che domani stesso tu la rapisca e la porti via con te. Io stesso mi occuperò poi di placare le ire del mio focoso fratello. Anche se all'inizio lo considererà un atto irrispettoso, sii sicuro che poi ti perdonerà e che riotterrai la sua stima e amicizia."
E così accadde.
Arjuna rapì la bellissima Subhadra e Krishna convinse Balarama e gli altri Vrishni a perdonare il Pandava e a rinunciare alle loro intenzioni di vendetta.
Il matrimonio fu celebrato e i due vissero a Dvaraka per il rimanente periodo di esilio di Arjuna. Quando questo fu terminato, una lunga processione di Vrishni accompagnò gli sposi a Indra-prastha.
Appena le fu presentata Subhadra, Draupadi ebbe un impeto di gelosia, ma ben presto le due principesse finirono col diventare buone amiche. Tutti festeggiarono il ritorno di Arjuna.
Dopo un po’ Subhadra diede alla luce Abhimanyu. Nello stesso periodo Draupadi partorì un figlio per ogni marito: da Yudhisthira nacque Prativindhya, da Bhima Sutasoma, da Arjuna Shrutakarma, da Nakula Satanika e da Sahadeva Shrutasena.
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Il rogo della foresta di Khandava
La nascita dei ragazzi portò una ventata di grande felicità nel regno dei Pandava. Tutti erano contenti e in ogni città e villaggio di Indra-prastha si festeggiò per giorni l'avvenimento.
I Vrishni erano ripartiti, ma Krishna era rimasto. La sua presenza conferiva alla corte un'atmosfera di spiritualità e di gioia, e specialmente Arjuna, con il quale trascorreva la maggior parte del tempo, era felice della sua presenza. Un giorno i due amici stavano passeggiando lungo le rive dello Yamuna, nella vicinanze della foresta di Khandava e stavano parlando dell'infanzia di Krishna, dei suoi genitori adottivi Yashoda e Nanda, dei suoi amici e familiari, delle gopi, prima fra tutte Radharani, quando un brahmana dallo splendore simile a quello del sole si avvicinò a loro. Il suo portamento era così solenne, la sua figura così alta e maestosa che i due si alzarono in piedi e lo salutarono con rispetto.
"O brahmana che splendi come un deva," lo salutò Krishna, "dicci cosa possiamo fare per te."
"Sono malato," rispose lui. "Da tanto tempo soffro di un grave male e i medici mi hanno assegnato una dieta per ritrovare la salute; ma non trovo nessuno che sia in grado di fornirmi gli alimenti di cui ho bisogno. Voi siete guerrieri famosi in tutto il mondo e il primo dovere della vostra classe sociale è di sostenere e aiutare i brahmana. Vorreste aiutarmi a trovare gli alimenti di cui necessito?"
"Certamente, siamo disposti a fare qualsiasi cosa per te," dissero i due. "Cosa dobbiamo fare?"
Lo strano personaggio decise di rivelare la sua vera identità.
"Cari amici, io non sono un brahmana, ma Agni, il deva del fuoco, colui al quale i brahmana offrono tutti i sacrifici vedici. Vi racconterò come è accaduto che mi sono ammalato.
"Molto tempo fa il re Svetaki celebrò cinque sacrifici del fuoco che durarono dodici anni, e fece versare nelle fiamme una tale quantità di ghi che gradualmente le mie condizioni di salute si sono rovinate. Da quel giorno smisi di ardere negli hotra vedici, per cui i brahmana si allarmarono al punto da spaventarsi: non ardendo il fuoco sacro l'intera società soffriva per mancanza di virtù e di necessità materiali. Allora Brahma intervenne e mi disse: "Devi ricominciare a bruciare!" Io gli risposi che ero malato e che non potevo. E lui ribatté: "Per ritrovare la salute devi divorare con le tue fiamme la foresta di Khandava".
"Così sono venuto subito in questo luogo e ho cominciato a causare incendi. Ma sfortunatamente qui vive con tutta la sua famiglia il serpente Takshaka, che è un grande amico di Indra, per cui ogni volta che tento di bruciare Khandava lui fa cadere fiumi di acqua che spengono le mie fiamme e io sono costretto a ritirarmi. Da allora la mia salute è andata peggiorando sempre più e devo assolutamente guarire. Io ho bisogno di due potenti guerrieri che sappiano tenere lontano Indra dalla foresta: solo così avrò la possibilità di divorarla. Aiutatemi, e ve ne sarò riconoscente."
Senza indugio, i due amici accettarono di aiutare Agni.
"Però se dovremo combattere contro i deva," dissero, "avremo bisogno di armi. Con queste che abbiamo non riusciremmo ad affrontare una simile battaglia. Procura delle armi adatte, dunque."
Agni fu d'accordo e chiamò Varuna; i due deva consegnarono agli amici trascendentali armi celestiali con le quali avrebbero potuto affrontare qualsiasi nemico. Ad Arjuna offrirono l'arco Gandiva e una faretra miracolosa che non esauriva mai le sue scorte di frecce, nonché uno strabiliante carro da guerra, mentre Krishna ricevette da Agni il disco Sudarshana. Ottenute queste ed altre armi, i due si sentirono pronti per la difficile impresa. A quel punto Agni si sentì già vittorioso e si gettò nei boschi di Khandava, espandendo le sue furiose fiamme. In pochi minuti la foresta divenne un inferno di grida di uomini e animali, che si mischiavano al crepitio delle fiamme e al fragore degli alberi che cadevano; il rumore era addirittura assordante.
E mentre il fumo saliva altissimo, nel cielo cominciarono ad addensarsi pesanti nubi nere, che aumentarono sempre di più con il passare dei minuti; poi i primi lampi, le prime gocce. Indra stava arrivando.
Krishna e Arjuna si prepararono al combattimento e quando la pioggia cominciò a cadere, i due inondarono il cielo di armi infuocate, prosciugando le nuvole. Poi la battaglia si fece feroce: i deva contrattaccarono, fino a che il duello divenne diretto. Dopo una violenta battaglia Indra fu sconfitto.
Egli, che durante il combattimento aveva ammirato il magnifico valore del figlio, si ritirò lasciando ardere la foresta. Del resto Takshaka era altrove e non correva alcun pericolo.
Khandava bruciò per giorni e giorni, ridando la salute ad Agni.
Quando il furore delle fiamme si placò, Krishna e Arjuna si rinfrescarono con soddisfazione nelle acque chiare dello Yamuna.